Sono arrivati invano da Bologna fino a Rimini per guardarlo dritto negli dopo quasi 20 anni: “Avrei voluto capire se davvero lui sta così bene, mentre noi invece soffriamo tutti”, spiega la nuora di Adolfino Alessandri, ucciso il 26 giugno del 1989 dietro un supermercato Coop a Bologna. Ha chiesto di non avere pubblico in aula Fabio Savi, il lungo della banda della Uno bianca, arrivato nel palazzo di giustizia di Rimini intorno a mezzogiorno per testimoniare nel processo a carico di Tamas Somogyi, l’ungherese accusato di avere fornito tra il 1991 e il 1993 delle armi al gruppo criminale che terrorizzò l’Emilia Romagna tra il 1987 e il 1994. Savi, scortato da una ventina di agenti, si è presentato davanti ai giudici rilassato, camicia blu scuro, per niente invecchiato. Sembrava lo stesso che una decina di anni fa aveva concesso un’intervista televisiva, l’ultima sua immagine pubblica. “Ne ho passate tante per questa storia”, ha ripetuto più volte durante l’interrogatorio nella città romagnola durato una ventina di minuti.
La delusione per i parenti, che in questo processo non sono parte civile, è stata grande quando i giudici li hanno invitati a uscire dall’aula impedendo loro di rivedere uno degli assassini dei loro figli, dei loro mariti. Savi, dopo avere chiesto invano la video-conferenza ha infatti chiesto e ottenuto la deposizione a porte chiuse. Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione delle vittime sperava di poter vedere l’assassino di suo marito Primo Zecchi. L’uomo era stato ucciso nel 1990 perché i Savi si accorsero che il pensionato aveva annotato il numero di targa dell’auto rubata usata per una rapina che avevano appena commesso. Un omicidio efferato, quasi un avvertimento per chi avesse anche solo osato parlare. “Eravamo curiosi di vedere come stava Fabio Savi”, spiega fuori dall’aula Rosanna. “Noi ora passiamo i cattivi perché non gli diamo il perdono. Ma per i 24 morti e i 102 feriti non possiamo perdonarlo. Non si dialoga con gli assassini”, ribadisce Zecchi. Già dal 2010 i legali dei Savi avevano di fatto chiesto un’apertura all’associazione dei parenti. Il perdono, sempre rifiutato dai parenti, consentirebbe ai Savi di accedere a degli sconti di pena.
Il processo a Somogyi si è riaperto dopo che la condanna dell’ungherese era stata annullata per diversi vizi di forma. In aula Fabio Savi ha confermato che conobbe il trafficante di Budapest per una questione di passaporti riguardante Eva Mikula, sua compagna rumena di origine ungherese. Savi ha spiegato ai giudici e al pubblico ministero Paolo Gengarelli di aver chiesto a Somogyi di procurargli delle armi. Lui stesso andò a ritirarle per tre volte nel paese magiaro, una volta assieme a suo fratello Roberto, nascondendo il carico sotto il sedile dell’auto. “Il fatto che le armi non le abbia mai portate in Italia Somogyi, ma sia andato sempre Savi in Ungheria a prenderle, rende impossibile contestare al mio assistito un reato di traffico d’armi in territorio italiano”, spiega l’avvocato Massimiliano Scaringella, legale di Somogyi il quale dal canto suo ha sempre negato il traffico d’armi con i Savi. Gli affari tra la banda della Uno bianca e il trafficante, che in Italia ha già scontato 8 anni e mezzo di carcere e ora è libero in Ungheria, riguarderebbero due mitra e cinque pistole entrate in Italia tra il 1991 e il 1993.
L’avvocato Scaringella ha anche chiesto a Savi, assistito oggi in aula dall’avvocato Graziana Betuelli, chi facesse da intermediario nelle tre trattative di vendita. Savi ha risposto che si arrangiavano a gesti e con qualche parola d’inglese, senza l’intermediazione di nessuno, neppure della Mikula. “Strano – ragiona l’avvocato Scaringella fuori dall’aula – come potevano fissare a gesti tre appuntamenti per una compravendita di armi da guerra in un’epoca in cui c’erano pochissimi cellulari, non c’era internet? Come parlavano al telefono? Magari, se non la Mikula, qualche intermediario ci fu”.
Il prossimo 29 ottobre davanti al presidente del collegio Andrea Barbuto saranno sentiti il fratello di Fabio, Roberto Savi, ex poliziotto della questura di Bologna considerato la mente della banda, Eva Mikula, amante allora di Fabio e teste importantissima per ricostruire l’attività criminale del gruppo tra il 1987 e il 1994 e il giornalista della Rai Stefano Tura, uno dei più attenti cronisti della vicenda della Uno bianca. “Ci saremo anche allora”, promettono i parenti delle vittime.
di Antonella Beccaria e David Marceddu