Il modello da seguire è quello tedesco, con il Bayern Monaco esempio virtuoso nel panorama continentale. Impietoso il confronto con l'Inter, ultima trionfatrice made in Italy in Champions League. Ma è tutto il sistema che scricchiola
Quello italiano non è più il campionato più bello del mondo. E la crisi che vediamo sul campo nasce da lontano: dai bilanci societari dei nostri club. Lo dimostra il confronto con la Bundesliga, il torneo del momento: in Germania cresce la qualità del gioco e anche il fatturato (per la prima volta sopra 2 miliardi di euro). Soprattutto, però, 14 squadre su 18 della massima divisione tedesca hanno chiuso la stagione in attivo. Modello dei modelli, se ce n’è uno, è il Bayern Monaco campione d’Europa, che chiude il bilancio in positivo da 20 anni di fila. E questo senza dipendere da nessuno, dal momento che l’80 per cento della società è detenuta da un’associazione di circa 190mila soci.
Stadio, marketing e merchandising: il Bayern Monaco è il modello da seguire
La filosofia del Bayern è non spendere più di quanto si incassa: ma se le entrate sfiorano i 400 milioni di euro annui non è difficile attenersi a questa regola. Loro sanno come guadagnare con il calcio: non solo diritti tv (37 milioni all’anno), ma anche marketing e merchandising spregiudicati (rispettivamente 82 e 57 milioni annui di ricavi), che non si limitano alla vendita delle divise ufficiali, ma griffano col marchio FC Bayern München praticamente qualsiasi cosa, dai sottobicchieri ai libretti bancari. E poi, ovviamente, c’è lo stadio di proprietà, sempre esaurito nelle ultime tre stagioni (e anche nella prossima, già venduti tutti i biglietti del campionato 2013/2014): l’Allianz Arena è costata 350 milioni di euro, è ultramoderna, ha una capienza di 70mila spettatori e garantisce ricavi per 130 milioni l’anno. Così, per i bavaresi spendere 40-50 milioni per un giocatore non è una follia: semplicemente, se lo possono permettere. Altro esempio di gestione modello è il Borussia Dortmund, che proprio col Bayern ha dato vita al derby tedesco nell’ultima finale di Champions League.
Anche fuori dai confini tedeschi le eccellenze non mancano. Sulle stesse cifre del Bayern (e anche superiori) viaggiano Real Madrid, Barcellona, Manchester United e Chelsea. I segreti sono i soliti: diritti tv, soprattutto incassi da gara e da commerciale. Il Barcellona, in particolare, oltre ad un fatturato da quasi 500 milioni annui, vanta la particolarità di una Cantera che educa i giovani talenti con la filosofia di gioco e di vita catalana. E ritrovarsi in casa a costo zero campioni come Xavi, Iniesta o il quattro volte pallone d’oro Leo Messi, fa la differenza.
L’immobilismo italiano: il Medioevo del pallone nel Belpaese
Il calcio migliore, adesso, si gioca altrove. Mentre il tracollo italiano è il frutto di un decennio di immobilismo. Tutt’oggi, nel pieno della crisi, le società che non producono un calcio sostenibile sono molte. Basti pensare alla Roma, che solo da quando sono arrivati gli americani ha bruciato circa 100 milioni senza raggiungere neppure una qualificazione in Europa League. Ma è il trend dell’intero campionato ad essere negativo: il nostro calcio non genera i livelli di fatturato che si raggiungono all’estero. Questo dipende soprattutto dall’incapacità di diversificare le entrate: la principale fonte di guadagno dei club italiani restano i diritti tv (45% in media), mentre nel modello Bayern Monaco incidono appena per l’11%. Altro nodo è l’eccessivo sbilanciamento nel rapporto tra costo del personale e fatturato: per il Bayern si attesta intorno al 45%, il Fair-play finanziario stabilisce un massimo del 70%. Secondo l’ultimo rapporto sul calcio europeo dell’agenzia Deloitte, invece, la media della Serie A è del 75%, contro il 51% della Bundesliga, il 60% della Liga e il 70% della Premier League. E, stando agli ultimi bilanci disponibili, il problema riguarda grandi e piccoli club in maniera indiscriminata: la già citata Roma e la Fiorentina (entrambe oltre l’80%), come anche le retrocesse Siena e Pescara, o il Torino e la Sampdoria (quest’ultima addirittura intorno al 150%), tanto per fare degli esempi.
La spending review non basta: il caso Inter
Ma il caso più eclatante di cattiva gestione, probabilmente, è quello dell’Inter, precipitata in pochi anni dai fasti del Triplete al nono posto della stagione appena conclusa. Alcune scelte sbagliate hanno portato la squadra a perdere enormemente terreno sul campo, senza peraltro riuscire a mettere a posto il bilancio. L’Inter era uno dei club più afflitti dal problema degli stipendi sovradimensionati, e su questo ha deciso di intervenire in maniera drastica, con la cessione dei giocatori più pagati (tra cui Eto’o e Maicon, Sneijder e Julio Cesar). Tagliare, però, non risolve il problema, come si evince dai risultati di bilancio degli ultimi anni. Il 2010 si era chiuso con un passivo di ‘soli’ 69 milioni di euro: una cifra frutto del geniale scambio Eto’o – Ibrahimovic (che portò all’Inter 45 milioni di euro), ma anche dei grandi introiti ricavati dalla vittoria in Champions League (circa 40 milioni). Da allora i dati non sono migliorati di molto: -86,8 milioni nel 2011, – 77 milioni nel 2012, per il 2013 si prevede un passivo inferiore ma ancora pesante.
Vendendo (e a volte svendendo) i giocatori dagli ingaggi più pesanti l’Inter ha raggiunto l’obiettivo di abbattere il monte stipendi (a giugno 2012 era sceso a 165 milioni, nel 2013 calerà ulteriormente), ma senza un progetto tecnico credibile, e con investimenti sbagliati, ha perso competitività. E questo ha portato al calo del fatturato, dovuto al venir meno di una serie di introiti connessi ai risultati sportivi (la mancata qualificazione alla Champions per due anni di fila vale da sola decine di milioni di euro) che ha vanificato i sacrifici fatti. Risultato: la cassa continua a piangere e la squadra è sprofondata in classifica. Così il risanamento voluto dal presidente Moratti si è trasformato in un ridimensionamento. La strada per un calcio virtuoso è lunga e difficile. Il caso dell’Inter lo dimostra.