Se la memoria non mi inganna è stato Paolo Flores d’Arcais, ossia il più grande organizzatore culturale della sinistra italiana, il primo a intuire doti di soggetto politico in Beppe Grillo. Si era nel 1997, al tempo in cui a Genova Claudio Burlando defenestrò il sindaco uscente Adriano Sansa, reo di non piegarsi alle logiche del locale partito degli affari. Lo segnalai immediatamente al direttore di MicroMega, che si gettò a capofitto nell’impresa di denunciare l’infamia: un inserto della rivista con un mio articolo di informazione sulla vicenda (“Oggi a Genova, domani in Italia”) e una discussione tra il magistrato prestato all’amministrazione civica e un suo vicino di casa a Sant’Ilario: Beppe Grillo.
In effetti quello era un ritorno sulle scene politiche del comico, che all’inizio carriera si faceva ingaggiare da uomini di mano del boss liberale locale – il ben noto all’ufficio Alfredo Biondi – come “tiracomizi” (il giovanotto che scalda il pubblico prima della performance del candidato). E da questa liaison (dimmi con chi vai e ti dirò chi sei) si capisce la cultura politica giovanile dell’attuale guru cinquestelle: quella di un borghese piccolo, piccolo, cresciuto in un quartiere (San Fruttuoso) di medio ceto artigiano/impiegatizio terrorizzato dal rischio di finire omologato nella classe operaia (la solita guerra dei penultimi contro gli ultimi). Un gruppo sociale ossessionato dalla possessività (avere più che essere), dunque naturalmente destrorso (e dato che all’epoca i neofascisti del Msi erano considerati degli appestati, simpatizzante per l’ala goliardico-demagogica del Partito Liberale di Malagodi, di cui l’Alfredo Biondi e compagnia erano espressione).
Non a caso le battute sui ladroni del Psi craxiano, che costarono a Grillo l’allontanamento dalla Rai, sono tipiche di quel milieu, tra il bar sport e il biondismo.
Da qualche anno l’antico ragazzo che ritornava al paesino natale di Savignone sulla Ferrari per far schiattare di invidia contadini e villeggianti, si è rifatto una verginità come tribuno dell’altrapolitica.
Quell’altrapolitica la cui fiammella era stata tenuta accesa, seppure in uno spazio limitato, da iniziative editoriali di nicchia come il Fatto Quotidiano o MicroMega; appunto, il bimestrale diretto da quel Paolo Flores d’Arcais a cui il Grillo ora attribuisce la patente di iettatore. Per l’esattezza “portasfiga d’annata”. La cui unica colpa è quella di cercare un dialogo per evitare che il M5S e Grillo caschino nelle trappole mortali che i soliti noti stanno predisponendo sul loro cammino, perché nulla cambi. Insomma, offrendo aiuto. Ma così facendo PfdA sfida Grillo a uscire da una visione proprietaria del movimento per entrare in quella di un soggetto politico compiuto. In cui si rischia la prova finestra della propria cultura politica, non potendo più far ricorso a un repertorio di battute importato da immaginari tra il cinematografico e il fumetto.
Un rischio che si sta rivelando insopportabile per il mastro don Gesualdo al basilico, che considera l’intera aggregazione di altrapolitica emersa nel febbraio scorso, pura e semplice roba propria; dimostrando così – nonostante abbia cambiato i testi (e i gost-writers) delle performances comiziali – come il suo dato caratteriale profondo resti quello del giovinetto destrorso che si era conquistato la fuoriserie con cui pavoneggiarsi.
Tanto da mordere la mano tesa da una persona amica. Ma, che nella testa dell’invecchiato ragazzino in pieno delirio di onnipotenza, sembrerebbe minacciare di portargli via il giocattolo.