L'emblema della romanità "cafonal", che ha il suo manifesto in Dagospia, è un ristorante di pesce costoso e sempre affollato, unico caso nel centro di Roma, che "sciorina" il miglior pescato della capitale ma quasi lo "rovina" con preparazioni e cotture
Oggi inauguriamo una nuova rubrica della sezione ‘Piacere Quotidiano’, le recensioni gastronomiche di Gian Luca Mazzella: ristoranti, vini, prodotti alimentari. Saremo un po’ cattivelli, a differenza degli altri.
Assunta Madre è l’emblema della romanità “cafonal” sbandierata su Dagospia: il proprietario Gianni (alias Johnny) Micalusi, qualche guaio con la giustizia in passato, è unico a Roma nel riuscire a far affollare un ristorante di pesce costoso, per tutte le sere da anni, in una storica e sonnacchiosa via del centro della capitale. Difatti essa è animata dalle vistose auto di lusso che si susseguono davanti all’entrata del ristorante, dove un usciere senza divisa prende le chiavi delle vetture, per poi incastrarle miracolosamente lungo i sampietrini.
Il nome “Assunta Madre” da un lato evoca l’uso dei marinai di dedicare le loro barche alla Madonna, dall’altro lato attesta l’attaccamento di Micalusi alla sua famiglia e a tutta la Terracina in cui è nato e pasciuto. Fatto che non perde occasione di ricordare, mentre si aggirava corpulento fra i tavoli stipati d’un locale chiassoso in cui il servizio è non tanto professionale quanto confidenziale, e mentre si abbraccia fiero e sorridente a calciatori o presentatori tv e a politici, a vari protagonisti del gossip italico e della cronaca giudiziaria, ad accompagnatrici o star di Hollywood: le cui foto, accanto a Johnny ovviamente, campeggiano all’entrata del ristorante anche in formato poster. Tutti amici di Johnny.
L’arredo non brilla né per gusto né per originalità, come del resto la monumentale mostra del pesce, che invece brilla per freschezza sopraffina: soprattutto i crudi (scampi e tartufi in particolare), che Micalusi scova quotidianamente nelle aste del pesce a Terracina e Anzio, e che poi però vengono serviti ammonticchiati sul ghiaccio, fra mezzi limoni tagliati col machete, lungo un pacchiano vassoio circolare posto ostensivamente al centro del tavolo: assordante e pertinente come l’urlo d’un venditore al mercato. Non una degna fine per il miglior pescato della capitale. Del resto, dice di sé Johnny: “io so pisciaiuolo non cuciniere”. Poco riusciti gli antipasti cotti dello chef Franco Bloisi (già Hosteria del Pesce), fra cui una pericolante parmigiana di pesce. Non propriamente lodevoli alcuni primi piatti, che sono quasi sempre gli stessi in tutti i ristoranti avuti da Micalusi: la qualità degli gnocchetti o la cottura di altre paste è discutibile. Secondi piatti altalenanti, nonostante la grande qualità di pesce (anche azzurro), che riesce buono quando intonso o appena sfiorato dalle cotture, molte inoriginali, almeno quanto i contorni e i dolci, davvero deludenti. Carta di vino varia e talora felice, con ricarichi accettabili che sembrano destinati ad aumentare: speriamo che la nuova consulente, la sommelier Alessia Meli, li lasci invariati.
Il prezzo medio del ristorante è di 100 euro a persona, vino escluso, dato che da Johnny si va per spendere, o meglio per “farsi notare”. Anche se poi spesso bisogna aspettare perfino per avere il tavolo che si è prenotato… Ma, alla fine, a qualcuno tocca in omaggio un grosso barattolo di alici di Terracina definite “tocco di classe” da un noto quotidiano romano. Finesse oblige.