Ecco l’intervento che Riccardo Iacona – autore del libro edito da Chiarelettere “Se questi sono gli uomini. Italia 2012. La strage delle donne” – ha tenuto di fronte ai detenuti della Casa di reclusione di Padova durante la giornata nazionale di studi “Il male che si nasconde dentro di noi” tenutasi il 17 maggio 2013 (qui la scheda del libro).

Come comunicatore, come narratore sento forte, urgente la necessità di rimettere al centro del racconto le nostre responsabilità di uomini. Rassicuro tutti che Presa diretta continua, e pensiamo anche di tornare sui temi della violenza di genere, che da soli, e devo dire che questa è una parte del racconto che vi farò oggi pomeriggio, abbiamo affrontato in prima serata in una trasmissione, nello spazio nobile dell’approfondimento giornalistico, là dove passano le grandi questioni nazionali.

Il processo di rimozione, a fronte di una cronaca che continua a raccontare la morte di queste donne, è nel nostro Paese talmente potente, che nessuna trasmissione di quelle di peso, cioè di quelle che parlano dei problemi nostri, economici, sociali, politici, ha mai messo al centro negli ultimi anni in prima serata per due ore il tema della violenza di genere. Questo è uno degli aspetti che mi ha spinto a fare questo lavoro d’inchiesta.

Sono stato in giro per due mesi, ho ricostruito una decina di queste storie avvenute nel 2012, gettando come piace a me “la rete larga”, quindi attraversando i contesti, parlando con i testimoni, con i vicini di casa, con i parenti, i poliziotti, i magistrati che hanno fatto l’inchiesta. Ma, soprattutto, attraversando quegli straordinari laboratori che sono i tanti centri antiviolenza che da anni costruiscono questa contronarrazione se non altro perché hanno il compito concreto della cura; cioè si sono posti l’obiettivo di mettere in atto delle pratiche di recupero, di cura, di salvataggio della donna e di reinserimento delle donne maltrattate o a rischio vita, per consentire loro di riprendersi la vita in mano.

Ho fatto quindi questo lavoro nel tentativo di squarciare questo velo di rimozione, talmente potente da cancellare persino i numeri. Pensate, davanti ai 30 morti di Scampia, la famosa faida di Scampia, si è mossa tutta l’Italia e Romano Prodi andò a fare un consiglio dei ministri straordinario proprio a Napoli, per segnalare all’opinione pubblica tutta l’importanza di quelle morti e oggi se un ragazzo viene ucciso a Scampia tutti sanno che non è un morto qualsiasi, è un morto di mafia. Quelle morti non sono senza senso, ci segnalano l’esistenza di un contropotere nel nostro Paese e quanto è larga quella terra di confine dove si incontrano la Mafia, L’Economia e la Politica.

Ma non sono bastate invece le 124 donne uccise solo l’anno scorso per far fare questo scatto di assunzione di responsabilità politica da parte della nostra classe dirigente. 124 corpi, 124 donne uccise che non avevano un nome e cognome, finivano nelle cronache delle storie d’amore andate male, senza che scattasse mai un allarme nazionale. Ma sono tante le cose che non tornano nel racconto che si fa delle storie delle donne uccise nel nostro Paese. I numeri che crescono. Perché crescono? Cosa ci segnalano?

Ma poi la giovane età dei protagonisti di queste storie, questo è qualcosa che ci deve far pensare. È una guerra moderna, questa. Non siamo di fronte ad una Italia in bianco e nero, no, non ci sono alibi, non sono storie di una periferia culturale, economica o morale del Paese. Non sono storie lontane da noi. Non sono storie di pazzi. Sono storie nostre, questo ci racconta la cronaca del loro martirio, 124 donne nel 2012 come se fossero state uccise tutte da un solo uomo e tutte per lo stesso motivo: la libertà. Libertà di scegliere, di lasciare, di decidere di vivere da sola, anche con i figli a carico, voglia di riprendersi la vita in mano, una vita dove lui non è previsto. Sono morte non perché deboli ma perché forti, sono state uccise quando si sono liberate del loro uomo, sono martiri della libertà. Eppure vengono raccontate come morti d’amore: “L’amava così tanto che poi alla fine l’ha uccisa”, si legge spesso sui giornali. E noi così le uccidiamo due volte, cancellando anche quel grido di libertà che ci lanciano dai marciapiedi di Italia ogni due, ogni tre giorni.

Ora arrivo al finale, a quello che ho scoperto con questo viaggio di inchiesta. Sul resto, sulle tante storie che vi racconto nel libro esercitate voi il vostro giudizio, mettete a nudo i vostri sentimenti. Ma questo è quello che mi sento di dover scrivere alla fine di questo viaggio: l’Italia è un Paese profondamente ostile alle donne italiane e questo è il nostro Afghanistan. Non deve stupire quindi che nelle classifiche internazionali di “gender gap” siamo in una posizione vergognosa, per le condizioni di vita della donna siamo più vicini ai Paesi del nord Africa che alla Germania e la Francia, per non parlare del Nord Europa. Ecco perché c’è bisogno di una contronarrazione, che disegni bene e netti i confini del nostro Afghanistan e come comunicatore, come narratore sento forte, urgente la necessità di rimettere al centro del racconto le nostre responsabilità di uomini.

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