Il contagio della protesta corre lungo i confini dei paesi emergenti. Dalla primavera araba, iniziata nel 2011 in Tunisia – la nazione più moderna del Nord Africa e quella con la più alta percentuale di alfabetismo e laureati -, il fuoco della contestazione popolare si è riacceso in Turchia, il cui Pil nel 2011 è cresciuto dell’8,5 per cento. Negli ultimi giorni lo stesso virus infuoca le strade del Brasile, dove da qualche anno è in atto un miracolo economico senza precedenti in America latina. In Grecia, in Spagna e nel nostro paese, invece, nazioni intrappolate nella morsa recessiva, dove da anni l’impoverimento avanza senza sosta, la piazza sembra svolgere funzioni completamente diverse, è luogo celebrativo di fazioni politiche ed oratori che incitano alla discriminazione: greci contro immigrati, nordisti italiani contro il Sud, catalani contro spagnoli.

Crescita economica, aumento della mobilità sociale e dei livelli di istruzione sembrano la ricetta migliore per trasformare le piazze nei megafoni delle richieste dell’emergente classe media, mentre la recessione, l’aumento della disoccupazione e dell’impoverimento non trovano spazi nelle tradizionali manifestazioni di piazza occidentali. La pessima economia nel ricco Occidente discrimina mentre nei paesi emergenti quella buona coagula i desideri delle classi basse che salgono la scala sociale.

Tutto ciò sembra un controsenso, ma non è così. L’ultima grande contestazione europea risale al lontano 1968 quando l’Europa era popolata da nazioni emergenti, che si rialzavano dalla devastazione della Seconda Guerra mondiale e che crescevano a ritmi simili a quelli delle odierne economie emergenti. Allora operai e studenti riempirono le piazze di tutto il continente. Costoro avevano in comune la speranza: i primi di offrire ai figli un’esistenza migliore attraverso un sistema d’istruzione di prima classe accessibile a tutti; i secondi di creare una società migliore, non schiavizzata dalle logiche della guerra fredda. Alla base c’erano richieste sociali ed economiche molto simili a quelle dei tunisini, brasiliani e turchi: il benessere di cui si gode deve essere distribuito il più equamente possibile.

Le richiese della moderna contestazione, come quelle del lontano 1968 in Europa, esulano dai bisogni attuali dei paesi ricchi ed industrializzati. I brasiliani non chiedono un posto fisso e una pensione decente a sessant’tanni ma trasporti migliori, ospedali efficienti, buone scuole e meno corruzione. Sono domande dirette al miglioramento delle infrastrutture socio-economiche e della gestione della cosa pubblica. I turchi non manifestano contro l’eccessiva tassazione o il dilagare del precariato ma contro un Primo ministro che vuole imporre comportamenti arcaici, quali il controllo dell’uso dell’alcol, ad una popolazione occidentalizzata e sofisticata. Neppure i giovani tunisini si preoccupano di avere un’occupazione, lavoro e opportunità individuali nelle economie emergenti non mancano.

Paradossalmente e quasi senza accorgercene nel ricco Occidente la grande recessione ha fatto passare in secondo piano richieste sociali, quali il miglioramento delle infrastrutture, ed ha portato la gente a concentrarsi sul privato: sul salario che non basta ad arrivare alla fine del mese, sulle tasse che non si sa come pagare così via e sugli ipotetici nemici che hanno creato questa situazione, dagli emigrati ai compatrioti. All’impoverimento economico, dunque, si accompagna anche quello sociale e l’unico sfogo diventa il populismo settario ed irrazionale.

Anche in Italia, in Grecia, in Spagna la scuola sforna ormai ignoranti e la sanità fa acqua da tutte le parti, ma nessun si sognerebbe di scendere in piazza e di paralizzare il paese per questo, come invece è successo in Brasile. In piazza si va ad ascoltare i grandi illusionisti della politica.

La decadenza economica ci sta togliendo tutto, anche il diritto sacrosanto di scendere in piazza. Ecco perché in nazioni dove la crescita è sostenuta c’è la contestazione mentre a casa nostra, con una contrazione economica nel 2012 del 2,7 si discute di diarie, scontrini e delle spese dei ministri. Un bilancio triste per il nostro paese e per tutta l’Europa.

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