“Colpiremo sia le mosche che le tigri”, aveva assicurato insediandosi il nuovo presidente Xi Jinping, perché è proprio il dilagare della corruzione tra i funzionari di tutti i livelli della Repubblica popolare che può scalfire il potere e la legittimità del Partito comunista più grande del mondo. E, sebbene i giornalisti che si occupano di scandali denuncino ancora di essere spesso intimiditi dalle autorità, qualcosa si sta muovendo. La metropoli di Maoming, sei milioni di abitanti nella ricca regione costiera del Guangdong, sta sperimentando cosa significa. Ed è già stata soprannominata la città delle mazzette.

La Commissione centrale per le ispezioni disciplinari interna al partito ha inviato una task force di oltre 70 uomini per riaprire un’indagine che ha portato sotto accusa l’ex segretario di Partito della città, Luo Yinguo, e altri 303 funzionari locali. L’ha riferito una fonte che rimane anonima al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post. Luo era stato arrestato a febbraio 2011 ed era finito al centro di un grave scandalo i cui contorni restano indefiniti. I media cinesi all’epoca riferirono che nella sua abitazione erano stati trovati in casa quasi 1,3 milioni di euro in contanti. Forse “regali” fatti al potente in occasione del Capodanno cinese. Abuso di potere era stata l’accusa ufficiale, anche se l’origine del denaro non è stata accertata. E ancora circolavano voci insistenti sull’esistenza di foto che lo ritraevano all’estero con diverse amanti, anch’esse funzionarie della sua città e su rapporti che avrebbero documentato che l’ex segretario di Partito di Maoming faceva uso di diversi passaporti e di false identità. Pare che durante il Congresso dello scorso novembre – quello che ha incoronato l’attuale leadership – si fosse messo in mezzo anche Wang Yang, uno degli attuali vice premier, che avrebbe promesso uno speciale indulto a patto che tutti i funzionari coinvolti restituissero i guadagni illeciti.

Come sempre accade in Cina, non ci sono conferme ufficiali su quello che è avvenuto in questi due anni. Ma conosciamo i risultati: 303 funzionari – di cui 24 a livello di prefetture e 218 a livello di contea – sono stati licenziati. Di questi solo 60 sono stati processati. L’ex segretario di partito Luo Yinguo – la presunta gola profonda di tutta questa storia – deve ancora affrontare un processo. La dirigenza comunista, che a Pechino si confonde con le alte cariche dello Stato, cerca così di dare un segnale forte e rimediare al senso di ingiustizia diffuso che circola nella popolazione. Ma è opinione diffusa che anche queste colossali azioni anti-corruzione funzionino sempre e solo contro le “piccole mosche”. In un paese il cui l’organo legislativo (l’Assemblea nazionale del popolo) è il luogo del mondo in cui siedono molti miliardari (dati Hurun 2013) e dove il New York Times ha documentato che la famiglia dell’ex premier Wen Jiabao ha accumulato un patrimonio di 2,7 miliardi di dollari durante la sua attività politica, neanche il recente arresto di Liu Tienan, vice direttore dell’importante Commissione per lo sviluppo nazionale e le riforme, è considerato un attacco alle “grandi tigri”.

D’altronde i dati parlano chiaro. L’Accademia cinese delle scienze sociali, il più importante think thank del Paese, ha pubblicato uno studio in cui denuncia che negli ultimi quindici anni almeno 18mila funzionari sono scappati dalla Cina trasferendo illegalmente all’estero quasi cento miliardi di euro, l’1,4 per cento del pil annuale. E sono gli stessi media di Stato a riportare che nell’ultima decade circa 900mila quadri di Partito sono stati condannati per aver preso tangenti. Si tratta di 80-90mila casi di corruzione conclamata all’anno. Il nuovo presidente Xi Jinping dovrà essere disposto a colpire tigri ben più potenti per convincere i suoi concittadini che quella in cui vivono è una repubblica e non una cleptocrazia.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

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