Il procuratore capo del capoluogo piemontese fu assassinato sotto casa il 26 giugno 1983. I sicari non sono mai stati individuati, ma come mandante è stato condannato il boss calabrese Domenico Belfiore. Il legale della famiglia del magistrato chiede la revisione del processo anche in base alle carte trovate in casa di Rosario Cattafi, presunto uomo "cerniera" tra Cosa nostra e apparati statali deviati. Un documentario e un libro di Nicola Tranfaglia saranno presentati il giorno dell'anniversario
Dopo trent’anni potrebbe essere a una svolta il mistero del più clamoroso omicidio di mafia del nord Italia: l’assassinio del Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, freddato sotto casa la sera del 26 giugno 1983 da sicari ancora sconosciuti. Un omicidio, quello di Caccia, che è stato archiviato come una questione privata tra il magistrato e il boss della ‘ndrangheta Domenico Belfiore, ma i cui contorni potrebbero nascondere altre verità. Nuovi elementi, tutti da verificare, contribuiscono infatti a disegnare uno scenario più complesso, in cui si muovono boss, figure istituzionali e servizi segreti. Fino a interessare personaggi coinvolti nella trattativa Stato-mafia.
Nel 2009 è emersa un’intercettazione dai contenuti inediti. Il magistrato Olindo Canali, indagato dalla procura di Reggio Calabria, viene registrato mentre racconta a un giornalista di una perquisizione effettuata a casa del presunto capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Si tratta dell’avvocato Rosario Pio Cattafi. Nella sua abitazione viene ritrovata la falsa rivendicazione delle Brigate rosse sull’uccisione del Procuratore Caccia. Ma documento e verbale di perquisizione non compaiono nel fascicolo sull’assassinio di Caccia. Che fine hanno fatto? E qual è stato il ruolo di Rosario Cattafi nelle indagini?
Quando Caccia viene ucciso la piazza torinese è contesa tra clan catanesi e calabresi. Sono proprio i siciliani a collaborare con i magistrati per addossare al boss calabrese Domenico Belfiore la responsabilità dell’omicidio. Il capo della ‘ndrangheta viene inchiodato da una confessione registrata di nascosto, in carcere, dal boss catanese Francesco Miano: “Per Caccia dovete ringraziare solo me”.
Cattafi, oggi al 41bis e testimone nel processo sulla trattativa Stato-mafia, è ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia catanese e servizi segreti deviati. La sua presenza nell’ambiente in cui si svolgono le indagini sull’omicidio di Caccia lascerebbe dunque pensare a responsabilità anche di boss catanesi, soci del gruppo calabrese, ma tenuti al riparo dalle indagini grazie a coperture istituzionali.
“Sono documentati i legami tra i clan catanesi e calabresi al nord, i loro interessi nel riciclare il denaro della mafia nei casinò, la protezione istituzionale di cui Cattafi e il suo ambiente godevano da parte di appartati dello Stato e i loro legami con i servizi segreti”. L’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici, ritiene che esistano tutti gli elementi per una revisione del processo: “Sono documentate persino le riunioni tra emissari di Cattafi ed esponenti del Sisde che hanno come oggetto proprio le indagini sull’omicidio del Procuratore Caccia”.
Del resto la scalata mafiosa dei casinò del nord Italia, e in particolare quello di Saint Vincent, è una delle ultime inchieste di cui il procuratore Caccia si è occupato. Circostanza aggravata dall’inquietante parallelismo con l’attentato al pretore di Aosta Giovanni Selis, anche lui impegnato nelle indagini sul Casinò e vittima di un tentato omicidio dinamitardo, consumato pochi mesi prima del delitto Caccia e di cui non sono mai stati individuati i responsabili.
“Caccia era prossimo alla pensione. Bisogna capire quale era l’urgenza di ucciderlo in quel momento”, spiega l’avvocato Paola Bellone, che da più di un anno studia il caso. Ritiene che altre indicazioni potrebbero sorgere dalla collaborazione di nuovi pentiti calabresi e dalle inchieste di cui Caccia si stava occupando. Indagini da cui emergono i rapporti che la ‘ndrangheta coltivava, già allora, con la politica e le più alte cariche istituzionali.
I figli di Bruno Caccia si sono rivolti alle istituzioni per la riapertura del processo: “Dopo trent’anni abbiamo bisogno di vedere che c’è la volontà di rivoltare le carte, di collaborare tutti quanti alla ricerca della verità”. Per loro sarebbe il modo migliore di ricordare, in occasione dell’anniversario della sua morte, la figura del coraggioso magistrato.
Giorno 26 giugno Bruno Caccia sarà ricordato a Torino presso la sede del Gruppo Abele, alle 21, con la prima proiezione pubblica del documentario “Bruno Caccia. Una storia ancora da scrivere” e la presentazione del testo di Nicola Tranfaglia “Bruno Caccia. Un magistrato dimenticato”. Il 27, invece, appuntamento in Procura con lo scrittore Roberto Saviano e il Procuratore della Repubblica di Torino, Gian Carlo Caselli.