Il capitalismo senza capitali cerca un nuovo salotto buono. E secondo il Wall Street Journal potrebbe trovarlo nella Cassa Depositi e Prestiti. Certo per la testata finanziaria di Rupert Murdoch si tratta solo di una ipotesi che tuttavia non farebbe altro che spostare da una parte all’altra il portafoglio di partecipazioni di sistema (Rcs, Telecom e Generali) che oggi sono nelle mani di Mediobanca.
Nulla di nuovo, insomma, sotto il sole dell’Italia dove, negli anni ’70, fu, invece proprio Mediobanca ad essere incoronata regina del salotto buono di Enrico Cuccia sostituendo la Bastogi, holding di partecipazioni di cui erano socie Comit, Credito Italiano, Banca di Roma e attorno al cui portafoglio di partecipazioni ruotarono personaggi di primo piano come il bancarottiere Michele Sindona, il presidente di Montedison, Eugenio Cefis e il banchiere Enrico Cuccia, fondatore della stessa Mediobanca.
Certo negli anni ’70, l’economia, “domeniche a piedi” a parte, funzionava e la finanza non aveva ancora conosciuto la sbornia dei derivati, l’aggressività della globalizzazione e la velocità di internet. Così il modello Mediobanca, pur attraversando una delicata fase alla successione di Cuccia e del suo braccio destro Vincenzo Maranghi, ha prosperato ed è arrivato fino ai giorni nostri in cui la gestione del presidente Renato Pagliaro e dell’ad Alberto Nagel ne hanno annunciato la fine.
O meglio: la concentrazione sul core business bancario del credito al consumo di Compass e del retail di Che Banca!, oltre che dell’investment banking e delle gestioni patrimoniali. Proprio per potenziare questi ultimi due settori, i vertici di Piazzetta Cuccia avevano deciso di attirare “nuovi talenti” soprattutto sull’estero. Banchieri in gamba come il francese Marc Vincent, ex capo Europa della Schroeder, che ha costruito da zero la filiale di Mediobanca a Parigi. Ma che poi ha lasciato Mediobanca poco dopo alcune divergenze, evidenziate dalla Procura di parma, con i vertici Mediobanca sull’affare Lactalis America Group che ha fatto volare all’estero il tesoretto Parmalat racimolato in anni dall’ex commissario Enrico Bondi.
Meritocrazia, insomma, sarà la parola d’ordine del futuro di Mediobanca del futuro che ha promesso un ridimensionamento del portafoglio di partecipazioni. Operazione che, nelle stime del management, consentirà alla banca di intascare un miliardo e mezzo e migliorare così i propri indicatori di solidità finanziaria entro il 2016. Tuttavia l’idea dell’addio al vecchio modello non è piaciuta tanto al mercato che venerdì scorso ha penalizzato il titolo in Borsa con peridte superiori al 9 per cento. E sembra non sia poi neanche tanto gradita ad alcuni grandi soci, soprattutto stranieri come Vincent Bolloré, il quale non ha mai negato di essere entrato nel salotto buono per avere una finestra privilegiata su quello che accadeva nel capitalismo italiano. E prova ne è la tentata scalata del 2011, poi sfumata, della compagnia Groupama, vicina a Bolloré, al capezzale della Fondiaria Sai della famiglia Ligresti.
Se i soci si interrogano sul futuro del patto di Mediobanca in scadenza il 31 dicembre 2013 (con eventuali disdette tre mesi prima), c’è però qualcuno che crede alle potenzialità di Piazzetta cuccia: Equita sim, ex Euromobiliare, che ritiene le azioni Mediobanca siano un’opportunità di acquisto interessante in Borsa. Per gli esperti della società milanese, l’uscita di Piazzetta Cuccia da società come Telco, la holding di controllo di Telecom Italia, si “eliminano una delle principali fonti di incertezza e potrebbero generare plusvalenze in caso di fusioni e acquisizioni”.
Tuttavia non si può trascurare che fra il dire e il fare ci sono di mezzo due grandi operazioni in cui Mediobanca ha deciso di fare la propria parte. Innanzitutto l’aumento di capitale di Rcs cui Piazzetta Cuccia ha deciso di aderire. E, poco prima, il rinnovo del patto di sindacato che lega gli azionisti della Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Segnali contrastanti fra le parole e i fatti che evidentemente hanno fatto accendere una lampadina nelle riflessioni dei reporter anglosassoni che, pur parlando della fine di un “network di influenza” che ha tenuto lontani i capitali stranieri, non mostra di credere poi fino in fondo all’uscita di scena della “vecchia famiglia aristocratica in decadenza che non può più permettersi di mantenere il suo salotto buono”.