Da quando Romano Prodi nel 1996 cacciò i boiardi al comando di Stet non c’è più stata pace per Telecom. Un sortilegio perseguita l’ex monopolista telefonico. L’aria di rinnovamento voluta dallo stesso Prodi cominciò infatti subito a diradarsi al momento della privatizzazione e il maleficio prese forma. Seconda metà del 1996: si decide di vendere Telecom tutta intera, cioè di non separare la rete dalla parte servizi.
Molte buone ragioni militavano per una scelta diversa (non ultimo il tema del servizio universale), ma le esigenze di cassa presero il sopravvento. Bisognava entrare tra i primi nell’euro e per far questo andava abbattuto il debito pubblico, cospicuamente alimentato dal disavanzo dell’Iri. Nino Andreatta stipulò quindi un accordo con Karel van Miert (allora commissario europeo alla Concorrenza): l’azzeramento del debito Iri con la vendita totale di Telecom. Le telecomunicazioni italiane privatizzate non secondo un quadro di sistema, ma per far soldi.
Il nocciolo duro
Si arriva dunque alla vendita tout court dell’azienda e si sceglie un modello di privatizzazione non improntato all’azionariato diffuso, ma guidato da un gruppo di azionisti forti, il cosiddetto nocciolo duro. Una scelta giustificata dal fatto che l’azionariato diffuso avrebbe potuto favorire il dominio del management. Scelta tuttavia infausta perché da subito quelli del nocciolo duro (tra cui Fiat e Generali) si misero a coltivare le loro prerogative di controllo, più per interesse finanziario che industriale. Il povero Guido Rossi, chiamato alla presidenza della novella azienda, fu subito costretto a dimettersi, non potendo portare avanti l’idea di riformarne la governance secondo un modello “più democratico”.
La maggior parte delle azioni erano state collocate in Borsa e acquistate da piccoli risparmiatori, ma il nocciolo con il suo 10 per cento complessivo volle dettar legge a tutti. E il governo? C’era ancora Prodi, agli sgoccioli. Siamo nel 1998 e nulla si muove. Eppure il governo, nelle linee di indirizzo per la privatizzazione, si era impegnato a garantire una gestione partecipata e trasparente dell’azienda. Ma per il nocciolo duro, in particolare Fiat, neanche a parlarne. Rossi se ne andò, il socio industriale – gli americani di AT&T – fu sloggiato e comparve il mitico Gian Mario Rossignolo. Passa un anno e arrivano i capitani coraggiosi che scalano Telecom a debito, con il beneplacito del governo D’Alema e senza opposizione del nocciolo duro.
Poi nuova scalata, quella di Marco Tronchetti Provera, sempre a debito, con incorporazione di Tim in Telecom e successiva scissione tra le stesse società con conseguente marea di debiti. Qualche insuccesso tecnologico e organizzativo più la svendita degli immobili e siamo ai nostri giorni. Nonostante i debiti, fin quando ci sono stati ricavi si è potuto tirare a campare. Oggi, con la congiuntura economica che tocca pesantemente le telecomunicazioni, le cose cominciano davvero ad andare male. Riparte così il mantra della separazione della rete, per risollevare le sorti dell’azienda. Perché sia una cosa seria e soprattutto utile è però necessario che la rete diventi per intero nuovamente pubblica. Soluzioni pasticciate che vedono il controllo ancora in capo a Telecom non hanno senso.
Se la Cassa Depositi e Prestiti impegna i soldi dei risparmiatori lo deve fare per recuperare alla mano pubblica questa infrastruttura essenziale per il Paese. In altre nazioni industrializzate ciò è avvenuto. La rete come commodity aperta e neutrale. Servono due passaggi: il primo è l’esatta valorizzazione dell’asset. Il calcolo del costo dell’operazione, secondo alcuni intorno ai 10 miliardi, non sta solo nell’infrastruttura in rame, ormai ammortizzata. Dipende invece dal perimetro della separazione, che comunque dovrebbe essere il più ampio possibile e comprendere anche le dorsali in fibra, l’infrastruttura anch’essa in fibra fino agli armadi in prossimità dei palazzi, le tubature in cui passano le reti (le “canalette”), le centrali, le persone che lavorano in Telecom sulla rete.
Nell’era della convergenza
La seconda cosa necessaria è un forte impegno del governo e delle altre istituzioni , in particolare l’Agcom, nonché, ovviamente, l’accordo degli azionisti di Telecom. Quanto al governo, metta mano subito al problema. Il tempo stringe e se la cosa va fatta, la si faccia per una volta non travolti dall’onda della necessità di far soldi per qualcuno e di evitare una tragedia occupazionale e tecnologica per altri. In un’idea di sistema non sarebbe male associare all’operazione anche le reti mobili (cioè impianti e frequenze).
Oggi la convergenza e soprattutto l’accesso in mobilità rendono intimamente connesse le due infrastrutture. Anche se il monopolista dell’etere sicuramente non sarebbe d’accordo, temendo il precedente. Infine, la rete pubblica e aperta non elimina il problema di un suo sviluppo in termini di estensione e tecnologia (il passaggio alla fibra su tutta la filiera). Andrebbe perciò favorita la creazione di un ambiente interessato a tale sviluppo, incentivando i servizi e i contenuti digitali. Compresi quelli televisivi, oggi recintati dai baroni dell’etere.
*Nicola D’Angelo è un magistrato amministrativo, già componente dell’Autorità garante per le comunicazioni (Agcom)
da Il Fatto Quotidiano del 19 giugno 2013