Il ministero dello Sviluppo di Flavio Zanonato è pronto ad andare incontro al settore, o meglio, ai produttori tradizionali. E Paolo Scaroni, numero uno del cane a sei zampe, vola a Bruxelles perché si affermi anche a livello europeo l'approccio al capacity market, come viene chiamato ora per allontanare l’idea che si tratti di un sussidio
Una partita che vale centinaia di milioni di euro, nessuno sa ancora esattamente quanti. Ma tanti. Tantissimi. Mentre il ministero dello Sviluppo di Flavio Zanonato annuncia il taglio da 500 milioni di euro alle bollette (in gran parte già previsto) per la riduzione di incentivi alle energie assimilate alle rinnovabili, prepara nuovi sussidi per il settore, o meglio, per i produttori tradizionali. Fino a 400-500 milioni di euro all’anno nei prossimi tre anni per un regime transitorio e poi 1,5-2 miliardi all’anno dal 2017, secondo le cifre che rimbalzano nel settore. Li chiedono grandi e piccoli gruppi energetici, sofferenti per la crisi dei consumi e la concorrenza delle rinnovabili sussidiate.
Dove si trovano 2 miliardi all’anno per la lobby elettrica? Uno dei decreti Sviluppo del governo Monti dovrebbe imporre a ministero e Autorità di scaricare una parte del peso sui produttori di rinnovabili, molto avvantaggiati in questi anni: si tratta di redistribuire dall’energia verde a quella normale. Ma se il sostegno elettrico arriverà davvero a 2 miliardi all’anno, una grossa parte del costo finirà per forza in bolletta, pagato da tutti i consumatori. Il negoziato tra ministero dello Sviluppo e Autorità dell’Energia e lobby del settore è ancora agli inizi.
Ma perfino l’Antitrust di Giovanni Pitruzzella ha offerto una sponda alle richieste di aiuto dagli operatori termoelettrici, i quali hanno subito colto il messaggio un po’ in codice. Lo spettatore più interessato di questa partita è l’Enel, il primo produttore elettrico nazionale.
Assicurazione o sussidio?
Il 22 maggio Paolo Scaroni e Fulvio Conti, amministratori delegati di Eni ed Enel, sono andati a Bruxelles per fare pressione, assieme ai loro omologhi internazionali, perché anche a livello europeo si affermi l’approccio del capacity payment. Anzi, capacity market, come viene chiamato ora per allontanare l’idea che si tratti di un sussidio. Le rinnovabili hanno messo fuori mercato le centrali termoelettriche tradizionali, che in questo quadro potrebbero pure essere chiuse. Ma è interesse nazionale che restino pronte all’uso, dicono produttori e governo: le rinnovabili vanno a sbalzi (basta una giornata nuvolosa e sono guai).
Morale: lo Stato deve pagare i produttori come si paga un’assicurazione, magari mettendoli in concorrenza tra loro, secondo quanto succede negli Stati Uniti. Il principio si è già applicato per il gas: lo scorso inverno Enel ha avuto 250 milioni di euro per mantenere le sue arcaiche centrali a olio combustibile, nell’ipotesi che dovessero essere riattivate come nel grande freddo del 2012 (l’inverno invece è stato mite). Per il 2014 sarà meno, 100-150 milioni di euro.
La zavorra del debito
Se il capacity payment (o market) aiuterà molto Enel sul conto economico – i ricavi tengono, ma l’utile netto del primo trimestre 2013 è in calo del 26,2 per cento rispetto al 2012 – per Enel il grosso problema resta il debito, arrivato a 43,3 miliardi di euro, eredità soprattutto dell’acquisizione della spagnola Endesa a caro prezzo. O meglio: l’Enel dice che sono 43,3 miliardi perché compensa una parte di debito con dei crediti (si chiama “posizione finanziaria netta”).
Mediobanca, nei suoi rapporti sulle imprese, non applica questi criteri che variano da azienda ad azienda e si limita a sommare le voci di debito oneroso in bilancio, cioè finanziamenti a lungo termine e a breve. Risultato: il debito su cui l’Enel paga interessi non è 43 miliardi, ma 63,9 miliardi di euro. Nonostante la parte spagnola del business continui a dare problemi, la partecipazione in Endesa è stata svalutata per 2,5 miliardi di euro, e nonostante tensioni col governo per le tariffe, la banca iberica Santander indica comunque l’azienda come “una delle storie azionarie più interessanti nel settore”.
Il prezzo delle azioni Enel, intorno ai 2,7 euro, non è stellare, nell’ultimo anno è cresciuto del 10,6 per cento, ma Piazza Affari (l’indice FTSE All Share) ha fatto +19,69. Comunque, per Santander, il prezzo incorpora già i problemi che possono derivare dalla crisi di domanda in Italia e da incertezze sulle regole di settore in Spagna. Quindi può solo migliorare.
Questione di bond
Nel 2012 Enel ha venduto ai piccoli risparmiatori un bond da 3 miliardi di euro. In queste settimane sta provando a lanciare un bond ibrido per altri 3 miliardi, uno strumento finanziario che dura 60 anni ed è per metà obbligazione e per metà azione, dal punto di vista dell’azienda ha il vantaggio che viene conteggiato solo in parte come indebitamento e per il resto come capitale, inoltre si può rinviare il pagamento della cedola se l’annata è negativa. L’investitore incassa un tasso di interesse più elevato.
Ancora non sono chiari i dettagli, ma il costo per Enel dovrebbe essere elevato, almeno il 6% di tasso di interesse. Doveva essere lanciato settimane fa, “ma il mercato ha girato e ora aspettiamo il ritorno di condizioni favorevoli”, spiegano dall’azienda. Con un debito così elevato bisogna trovare strategie sofisticate per gestirlo. L’ad Fulvio Conti ha anche un incentivo concreto: dal bond dipende una parte del suo stipendio. La remunerazione di Conti ha una parte fissa (1,4 milioni di euro).
Poi c’è una parte variabile: fino al 150 per cento in più al raggiungimento degli obiettivi, bonus che è stato ridotto però per la crisi e la situazione non facile dell’azienda. Nel 2013 Conti può sperare di avere fino a 700 mila euro di bonus, che scattano in base ai risultati, misurati da 1 a 100 punti. La soglia minima è 48. E ben 15 punti Conti li ottiene se riesce a emettere un bond ibrido. Spiccioli, al confronto della partita miliardaria in corso, ma sono sempre graditi.
da Il Fatto Quotidiano del 19 giugno 2013