“Sepoltura dei bambini mai nati”. Si chiama così la pratica, diffusa in tutta Italia, portata avanti da Difendere la vita con Maria (Advm). L’associazione, fondata e presieduta da don Maurizio Gagliardinidal 1999 stringe accordi con ospedali, aziende sanitarie e Comuni per occuparsi della sepoltura di quelli che la legge definisce testualmente “prodotti abortivi”. Occuparsi in che modo? Con lapide e rito funebre, in molti casi senza l’esplicito assenso dei genitori o degli aventi diritto. Perché a 24 ore dall’aborto, se mamma e papà non reclamano per l’appunto il “prodotto abortivo”, perdono ogni diritto di proprietà. Per legge. 

In tema di polizia mortuaria la normativa italiana prevede che i feti di presunta età intrauterina superiore alle 20 settimane vengano seppelliti, al pari di tutte le parti anatomiche riconoscibili (solitamente arti oggetto di amputazione). Le parti anatomiche non riconoscibili (quindi anche i prodotti del concepimento di età inferiore alle 20 settimane di vita intrauterina) devono essere smaltiti come rifiuto speciale ospedaliero e avviati alla termodistruzione (non in forno crematorio) ai sensi del Decreto del presidente della Repubblica (Dpr) 254/03.

Un'immagine del rito funebre ai "bambini mai nati"

Ed è su questo terreno che si innesta l’attività dell’associazione “Difendere la vita con Maria” che si propone di dare una sepoltura “dignitosa” a tutti quelli che chiama “bambini mai nati”, intendendo come “bambino” ogni forma intrauterina successiva all’atto del concepimento. Advm supera quindi la distinzione fissata dalla legge italiana, che discerne (ai fini della sepoltura) i cosiddetti “prodotti abortivi di età inferiore e superiore alle 20 settimane di vita intrauterina. Per l’associazione religiosa non esiste quindi nemmeno la distinzione tra embrione o feto, in quanto la vita umana viene considerata tale per tutte le fasi del suo sviluppo, fin dai primi istanti successivi al concepimento. Quindi, ai fini della sepoltura e del relativo rito di accompagnamento all’inumazione, poco importa se quello che la legge chiama in maniera distaccata “prodotto abortivo” abbia o meno tratti antropomorfi.

Questa attività, pienamente legale, trova spazio nelle pieghe della legislazione italiana. In particolare richiamando l’articolo 7 comma 2 del capitolo di Polizia mortuaria contenuto nel Dpr (10 settembre 1990, n. 285), che prevede l’inumazione dei “prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina”. La stessa norma stabilisce anche che “a richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane”.

La lettura del decreto viene poi completata in chiave restrittiva da una circolare ministeriale del 16 marzo 1988, firmata dall’allora ministro della Salute Carlo Donat Cattin: “Il seppellimento – si legge – deve di regola avvenire anche in assenza di richiesta dei genitori, posto che lo smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali urta contro i principi dell’etica comune”.

Così l’associazione, proprio grazie alla lettura restrittiva delle norme, ha potuto seppellire e dare una benedizione ai “prodotti abortivi”, anche quelli di età presunta inferiore alle 20 settimane, andando ben oltre la distinzione fissata dalla legge italiana e superando il diritto alla libertà di scelta dei genitori. Secondo l’associazione tutti i “prodotti abortivi”, anche quelli di presunta età inferiore alle 20 settimane, vanno infatti seppelliti, anche quando i genitori non lo richiedano esplicitamente (la legge offre già la possibilità della sepoltura su richiesta). Dal 2007 lo stesso orientamento è stato adottato dalla Regione Lombardia, mentre dal 2012 anche dalla Regione Campania, che hanno approvato specifici regolamenti che danno ai feti di età inferiore alle 20 settimane lo stesso trattamento che la normativa nazionale garantisce a quelli di età intrauterina superiore alle 20 settimane.

Nello spirito dell’associazione conta poco (o niente) la volontà del genitore. Che si pratichi una interruzione volontaria di gravidanza (che rappresenta la maggioranza dei casi), che si patisca un aborto spontaneo o si programmi un aborto terapeutico, entro 24 ore dall’espulsione o dal raschiamento, i genitori o gli aventi diritto possono reclamare il feto (o l’embrione) per occuparsene in prima persona. Decorso questo termine sarà l’ospedale a farsene carico (ed è questa la circostanza più frequente). Di norma, gli ospedali che non hanno stretto accordi con Advm procedono secondo la legge. Ovvero in tutta Italia i prodotti abortivi di età presunta inferiore alle 20 settimane vengono avviati allo smaltimento per termodistruzione, quelli di età superiore vengono avviati all’interramento in campo comune assieme alle parti anatomiche riconoscibili. Uniche eccezioni la Lombardia e la Campania, dove tutti i prodotti del concepimento, anche quelli di età inferiore alle 20 settimane, vengono avviati all’interramento. Dove la struttura sanitaria abbia siglato accordi con Advm, tutti i feti e gli embrioni non reclamati dalle famiglie vengono avviati all’interramento in cimitero accompagnati da un rito funebre.

Secondo don Gagliardini e i rappresentanti dell’associazione, una volta trascorsi i termini di legge entro i quali i genitori avrebbero avuto la possibilità di reclamare il “bambino mai nato”, l’associazione difendere la vita con Maria non deve chiedere altra autorizzazione per procedere con la propria attività, delineandosi unicamente un rapporto tra l’associazione e la struttura sanitaria (che dispone del “rifiuto ospedaliero” a norma di legge), un rapporto in cui gli aventi diritto hanno scelto liberamente di non essere parte.

La pratica trova una sempre maggiore applicazione grazie a una rete capillare di strutture sanitarie e amministrazioni comunali che siglano protocolli d’intesa e accordi di gestione con l’associazione religiosa che, appunto, fa della sepoltura dei “bambini non nati” la propria missione fondante. Presente in un centinaio di Comuni, “Difendere la vita con Maria” ha stretto convenzioni con le aziende ospedaliere del territorio in città come Roma, Napoli, Torino, Caserta e Genova. Non solo. Advm opera anche a Perugia, Agrigento, Novara, Busto Arsizio, Gallarate, Biella, Bolzano, Bergamo, Varese, Verbania, Cremona, Avellino, Foggia, Caltanissetta, Legnano, Lecco e Foligno, oltre a tanti Comuni più piccoli. In oltre 10 anni di attività (fondata nel 1998, riconosciuta dalla curia di Novara nel 2003) ha dato sepoltura a 52mila “bambini non nati” in tutta Italia, secondo quanto dichiara lo stesso presidente di Advm.  

L’attività di “Difendere la vita con Maria” si è sviluppata a partire dal nord Italia, da Novara, ed ha poi trovato terreno fertile nella vicina Lombardia fin dai primi anni dello scorso decennio. La macchina è stata messa a punto nei minimi dettagli, tanto che le modalità operative sono state standardizzate e le convenzioni in essere si contano ormai a decine: sono 60 quelle firmate dall’inizio dell’attività dell’associazione, 40 quelle attive attualmente, una decina quelle in discussione in questi mesi).

Formalmente l’associazione sgrava l’ospedale del costo dello smaltimento di quelli che la legge definisce “rifiuti abortivi” (ecco il vantaggio per la struttura pubblica) e si fa carico di tutti gli oneri di inumazione dei “bambini non nati”, dall’acquisto dei contenitori biodegradabili al trasporto verso il cimitero.  Una volta stretto l’accordo con le strutture sanitarie, l’associazione cerca qualche “amministrazione comunale compassionevole”, ottiene in uso gratuito uno spazio cimiteriale (restano in carico ai comuni anche gli oneri di interramento) e lì, di norma una volta al mese, si reca con i propri volontari a compiere il rito di sepoltura dei resti abortivi.

Un rito che è a sua volta codificato nei minimi dettagli nel decalogo dell’attivista mariano: “Al cimitero si raduneranno tutti coloro che vorranno esprimere un gesto di amore e di pietà a questi piccoli e si avvierà la preghiera con il rosario durante l’attesa e accompagnando fino al luogo della sepoltura in processione il carro funebre”. Mentre, giunti al luogo della sepoltura “il sacerdote inizierà il rito”.

In attesa di un rito specifico per i bambini non nati, i volontari suggeriscono di applicare quello previsto dalla Cei per i bambini non battezzati. Completata la funzione avviene poi il seppellimento delle piccole bare (approvate dalle autorità sanitarie competenti) accompagnato da un canto.

L’associazione, per sostenere la propria attività, ha pensato anche a una singolare raccolta fondi. Sul sito advm.org si possono donare 16 euro per il seppellimento di un bambino non nato, 6 euro per un cofanetto, 5 euro per una piccola sindone, 3 euro per un fiore e 2 euro per un lume.

A nulla sono valse le interrogazioni parlamentari che negli anni sono state presentate da Maria Antonietta Farina Coscioni e altri deputati radicali. A più riprese e riferendosi a diversi casi, hanno fatto notare che affidare i feti e gli embrioni abortiti nelle mani di un’associazione religiosa che li seppellisce in un cimitero con un vero e proprio rito funebre, senza il consenso esplicito degli interessati, rappresenta una stortura “fortemente lesiva del diritto di libertà di scelta dei cittadini e della laicità dell’istituzione comune”. 

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