Non sarebbe la prima volta che accade un trasloco siderurgico. Nel 1994, ad esempio, un forno dell’acciaieria Arvedi fu smontato e portato in Cina.
Perché produrre in Cina
Anche per Taranto si può fare tecnicamente così. Pezzo dopo pezzo gli impianti dell’Ilva – nonostante le loro dimensioni – possono essere smontati e trasferiti nella Repubblica Popolare Cinese. Il piano è semplice e affascinante: produrre senza controlli ambientali, senza il fiato sul collo della magistratura e degli ambientalisti e con prospettive di mercato decisamente migliori. E in più: costo del lavoro più basso ed energia a buon mercato. Il piano servirebbe anche a mettere in salvo impianti che potrebbero essere confiscati per risarcire gli eventuali danni.
Questo è lo scenario ipotizzato da chi avverte: non tirate troppo la corda altrimenti Ilva lascia l’Italia portando con sé il salvabile. Ossia un patrimonio che ammonta a 2,4 miliardi di euro.
Scenario mondiale con eccesso di capacità produttiva
Ma è uno scenario realistico quello sopra riportato? Vediamo se il piano funzionerebbe.
Il 28 novembre 2012 un’analisi del Wall Street Journal ha evidenziato a livello mondiale un eccesso di capacità produttiva nel settore siderurgico: si produce più acciaio di quanto il mercato ne richieda. Oggi nel mondo dagli impianti siderurgici ogni anno si possono ottenere 1,8 miliardi di tonnellate, mentre se ne consumano solo 1,5. John Miller sul Wall Street Journal avverte che la capacità produttiva è enorme e continua ad aumentare. “Il bilancio sarà ancor più squilibrato nei prossimi anni”, sottolinea Roberto Capezzuoli nell’articolo dal titolo “Il mondo dell’acciaio ha un problema, l’eccesso di capacità produttiva“.
Acciaio, la depressione dei prezzi
L’eccesso di capacità produttiva ha avuto effetti depressivi sui prezzi di mercato. Roberto Capezzuoli porta dati eloquenti: “Dall’inizio del 2008 ad oggi, negli Usa, i prezzi dei coils laminati a caldo hanno perso il 35%, arrivando a 636 dollari per tonnellata. Ne ha fatto le spese la RG Steel, il quarto gruppo siderurgico statunitense, che ha dichiarato bancarotta e ha fermato impianti la cui capacità è di 7,5 milioni di tonnellate annue”.
I coils sono lamiere di acciaio arrotolate in bobine, e l’Ilva è un grande produttore di coils.
Nubi nere dunque in America. Ma in Europa le cose vanno ancor peggio. Infatti i costi dell’energia sono superiori a quelli degli Stati Uniti e nella siderurgia l’energia è uno dei costi che incide di più.
L’Europa: eccesso di offerta e dipendenza dalle materie prime
Inoltre l’Europa presenta un eccesso di capacità produttiva di 80 milioni di tonnellate/anno (dentro le quali sono contemplati i 10 milioni di tonnellate/anno dell’Ilva), come ammette la Commissione Europea.
Il bilancio negativo non finisce qui: a dare la mazzata finale alla siderurgia italiana ed europea è l’aumento del costo delle materie prime: il prezzo del minerale di ferro, la materia prima del ciclo siderurgico, è schizzato alle stelle con un +65% nel febbraio di quest’anno.
Ma come mai sale il prezzo delle materie prime se in Italia e in Europa la domanda di acciaio scende? La risposta è purtroppo questa: il prezzo del minerale di ferro è trascinato in alto dalla crescente domanda dei mercati asiatici, forse anche da accordi di cartello. Attenzione: questo aumento dei costi delle materie prime non viene trasferito sui prezzi di vendita dei prodotti finiti che – come abbiamo visto – si deprimono per l’eccesso di offerta rispetto alla domanda di mercato. Dove si scarica allora l’aumento dei prezzi delle materie prime? Semplice: sui profitti. La siderurgia perde quindi profitti e non è più una gallina dalle uova d’oro che Riva aveva fatto razzolare nel suo cortile tarantino.
Ora c’è crisi e si scopre che Riva aveva fatto male i conti ad esempio raddoppiando l’attività di zincatura a caldo a Taranto.
“Situazione insostenibile”
Jean-Luc Maurange, vicepresidente di Arcelor Mittal al 28° Steel Market Outlook ammette la difficoltà generata dall’eccesso di capacità produttiva: “Il riallineamento tra produzione e consumo non si è ancora concluso, specialmente in Europa meridionale, dove la capacità produttiva era aumentata maggiormente ed il consumo è calato in misura superiore”. Per esemplificare questa difficile situazione, Maurange ha citato la situazione dello zincato a caldo in Italia: mentre nel 2008 la domanda interna era di 3,2 milioni di tonnellate e la capacità produttiva installata di 4,4 milioni di tonnellate, nel 2012 il consumo è sceso sotto i 3 milioni di tonnellate e la capacità è schizzata a 6,3 milioni di tonnellate, “una situazione industrialmente insostenibile“.
La siderurgia attraversa quindi una crisi epocale perché la società non chiede tutto l’acciaio che viene prodotto, ragion per cui un colosso come ArcelorMittal, per esempio, nel 2008 aveva in funzione in Europa 28 altiforni, oggi ne ha 18.
Il Portale della Siderurgia Siderweb sottolinea “l’impossibilità futura per l’Europa di rimanere un produttore di commodity”. Commodity è un termine inglese che indica un bene (ad esempio l’acciaio grezzo) che si acquista indipendentemente da chi lo produce ed è l’equivalente in italiano di “bene indifferenziato” ad elevata standardizzazione.
Maurange trae conclusioni drastiche: “Non vedo un futuro per i produttori di acciaio europei concentrati solo sui mercati a basso valore aggiunto”. Ed è proprio questo il settore di mercato su cui è posizionata l’Ilva attuale. L’Ilva pertanto avverte tutto il peso della crisi attuale. L’economista Marcello De Cecco avverte: “L’industria italiana dell’acciaio rischia di fare la fine di quella della chimica di base”. La situazione della siderurgia italiana è quindi di grave difficoltà: “Il fermarsi della domanda di prodotti siderurgici nel mondo – prosegue De Cecco – è stato abbastanza improvviso, per il persistere del boom asiatico e specie cinese, dopo l’arrivo della crisi. Ma in Europa la domanda di prodotti siderurgici ha ristagnato sin dall’inizio della crisi, e la capacità di mantenere posizioni da parte dei produttori siderurgici italiani, come d’altronde di quelli tedeschi, è dipesa in maniera essenziale dalla loro capacità di esportare in quelle parti del mondo, i paesi emergenti, dove la crisi ha colpito assai meno. Fino al 2012 hanno mostrato di riuscirci, ma alla fine dell’anno scorso anche quello sbocco ha mostrato segni seri di esaurimento. E la tendenza si è fatta più chiara e grave nei primi mesi di quest’anno. La crisi del principale produttore italiano, l’Ilva, che domina il nostro mercato e si colloca in buona posizione anche a livello mondiale, ha dunque coinciso con quella della siderurgia mondiale”.
Crisi dell’acciaio: come uscirne?
Quindi che fare di fronte a questa crisi siderurgica che attanaglia l’Ilva, l’Italia e l’Europa?
La prima risposta è quella di posizionarsi – come hanno le aziende tedesche – su settori innovativi della siderurgia, producendo ad esempio non solo acciaio ma anche tecnologie che risparmino energia e riducano l’impatto ambientale. Un esempio è la Siemens Metal Technologies, leader mondiale nella progettazione e costruzione di impianti siderurgici. Ma l’Italia non ha puntato su questo modello di siderurgia, ha basato solo a produrre e non a investire nell’innovazione e ora è in grave crisi. Il recente piano europeo dell’acciaio fa capire che o il settore si innova o altrimenti non può vivere di semplice speranza e di antiche glorie.
Il vantaggio competitivo dell’Ilva e la stagnazione della domanda
Il vantaggio competitivo dell’Ilva sul mercato internazionale – specie in questi ultimi anni di rincaro dell’energia in Europa – si è basato sul ciclo integrale che – mentre produce ghisa negli altoforni – contemporaneamente garantisce energia a costi irrisori a tutto lo stabilimento, in quanto produce quel gas AFO che viene immesso nella rete di stabilimento per un auto consumo, mentre la restante parte viene recuperata tramite le centrali termoelettriche CET2 e CET3 di proprietà dell’Ilva. Anche il gas sprigionato nel processo produttivo delle cokerie viene oggi riutilizzato in quanto è principalmente costituito da idrogeno, metano, ossido di carbonio, biossido di carbonio, azoto, ossigeno, idrocarburi, ammoniaca e idrogeno solforato: dopo essere stato trattato viene utilizzato nelle varie utenze termiche di stabilimento. Qui sta dunque il vero asso nella manica del più grande stabilimento siderurgico d’Europa che può auto-prodursi l’energia in un momento in cui le altre acciaierie italiane ed europee dotate di forni elettrici devono pagare – a caro prezzo – quell’energia che incide per il 40% sui costi di produzione dell’acciaio.
Ma Ilva – cresciuta come gigante europeo – si scontra con una stagnazione della domanda che è ormai non più contingente ma strutturale in Italia e in Europa, cosa riconosciuta anche da Federacciai che parla – per bocca del presidente Antonio Gozzi – di “scenari di ulteriore contrazione dell’economia nell’anno in corso”.
Ed ecco allora che Ilva si rivela, in questa mutata situazione del mercato, come un gigante pieno di energia che rimane imprigionato in una stanzetta angusta.
Migrare in Cina: uno scenario realistico?
Che fare dunque? La risposta può sembrare semplice e ovvia: si potrebbe migrare in Cina. E ci ricongiungiamo allo scenario iniziale, con quell’immagine degli impianti che – smontati pezzo per pezzo – partono dal porto di Taranto per approdare ai lidi cinesi apparentemente immuni dalla crisi. Ed eccoli gli altoforni e le odiate cokerie lasciare la città e migrare lì dove i magistrati tarantini non potranno più mettere il naso.
Lo scenario si chiude e il sipario si abbassa con un bel marameo al GIP Patrizia Todisco e al Procuratore Franco Sebastio, con pernacchia finale a quegli ingrati dei tarantini che sono scesi in piazza con i cartelli inneggianti alla salute e alla giustizia. La scena successiva è da film: tutto viene rimontato in un distretto produttivo cinese con la bandiera rossa issata su quei camini che un tempo guardavano sui tramonti dello Jonio.
Fine della storia.
Ma andrà a finire proprio così?
Al nostro scenario – così suggestivo nelle conclusioni – manca una sola cosa: la verifica finale. Ossia: la Cina ha veramente bisogno dei dieci milioni annui di acciaio dell’Ilva?
‘Overcapacity’ della Cina
Ed ecco l’amara sorpresa per chi ha pensato realistico questo clamoroso finale. La Commissione Europea stima che dei circa 542 milioni di tonnellate di acciaio annuo ‘in più’ di capacità produttiva mondiale, ben 200 milioni di ‘overcapacity’ sono proprio in Cina. In altri termini: la Cina non saprebbe che farsene dell’acciaio dell’Ilva. I 10 milioni di tonnellate/anno di capacità produttiva supplementare consentita dagli impianti dell’Ilva infatti aggraverebbero ulteriormente quella che in gergo tecnico viene definita “overcapacity”: “Ability to produce more than is needed”, ossia la capacità di produrre più di quanto è necessario.
La Cina – se si caricasse sulle spalle anche l’Ilva – passerebbe da 200 a 210 tonnellate/anno di overcapacity, nel campo siderurgico. E dunque ecco che lo scenario di un’Ilva che migra in Cina crolla.
Cura dimagrante per le acciaierie cinesi
Già nel 2010 la Cina ha preso in considerazione una ‘cura dimagrante’ per la siderurgia. Questione ripresa l’anno successivo in quanto – come osserva Il Sole 24 Ore – quello siderurgico cinese è un “settore afflitto da anni da un eccesso di capacità produttiva”. E finalmente il nodo è arrivato al pettine: la Cina si prende dai 5 ai dieci anni di tempo per tagliare la propria capacità produttiva nel settore dell’acciaio. La notizia è recente ed è emersa nel diciassettesimo Shanghai Metallurgy Expo.
La Cina non accoglierà quindi impianti in fuga da Taranto.
Riconvertire per garantire i lavoratori
E l’unica prospettiva, dunque, è quella di includere Taranto – come Trieste – in un piano di riconversione industriale, utilizzando l’articolo 27 del Decreto Sviluppo 2012 (“Misure per la crescita sostenibile”).
L’articolo 27 recita:
Riordino della disciplina in materia di riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessa
Nel quadro della strategia europea per la crescita, al fine di sostenere la competitività del sistema produttivo nazionale, l’attrazione di nuovi investimenti nonché la salvaguardia dei livelli occupazionali nei casi di situazioni di crisi industriali complesse con impatto significativo sulla politica industriale nazionale, il Ministero dello sviluppo economico adotta Progetti di riconversione e riqualificazione industriale.
La questione è certamente complessa. Ma visto che la crisi dell’Ilva sembra irreversibile, in un quadro gravato da una forte ‘overcapacity’, il nodo della riconversione è la questione chiave. Se non affrontata con anticipo e con competenza, rischia di essere un’occasione perduta per chi ha veramente a cuore la sorte dei lavoratori dell’Ilva e della siderurgia italiana.
Foto: Luciano Manna /Peacelink