Parla don Maurizio Gagliardini, presidente di "Difendere la vita con Maria" che si occupa della sepoltura di quelli che la legge identifica tecnicamente come “prodotti abortivi”. A permetterglielo, la legislazione italiana: prevede che la famiglia possa esercitare tutti i diritti entro un giorno. Se non lo fa, la sanità può disporne secondo i propri criteri anche avvalendosi di associazioni come "Advm"
Don Maurizio Gagliardini è il presidente dell’associazione “Difendere la vita con Maria“. Nata a Novara nel 1998 e riconosciuta dalla Chiesa nel 2004, Advm si occupa “della difesa della vita fin dal concepimento”, con un risvolto unico in Italia: il seppellimento dei “bambini non nati”, quelli che la legge identifica tecnicamente come “prodotti abortivi”. “Noi cerchiamo di essere discreti, affettuosi e gentili – spiega Gagliardini – Dopo aver raccolto i resti avviene una piccola cerimonia. La legge italiana prevede che la famiglia possa esercitare tutti i diritti entro le 24 ore. Una volta che non rivendica il prodotto abortivo la sanità può disporne secondo i propri criteri e la propria esperienza”. Insomma, tutto legale. Ma tutto anche per lo più sconosciuto ai genitori che ignorano la legislazione e quindi i loro diritti.
L’associazione da qualche tempo è diventata anche una onlus e stringe convenzioni con le strutture sanitarie. Come funziona?
Ci occupiamo della sepoltura dei bambini non nati, dei ‘prodotti del concepimento’, come sono chiamati dalla legislazione italiana. Lo facciamo in ottemperanza alle norme e alle indicazioni legislative che sono molto puntuali. Anche il magistero prevede che i cadaveri, embrioni e feti umani volontariamente abortiti o no, debbano essere rispettati come le spoglie umane.
Quanti sono gli ospedali con cui avete stretto una collaborazione?
Gli ospedali sono numerosi. Alcuni sono aziende ospedaliere, una decina. Poi ci sono le Asl, che raccolgono un territorio molto vasto. Se calcoliamo le città dove svolgiamo il seppellimento dei bambini non nati arriviamo a circa un centinaio. Le convenzioni che abbiamo stipulato sono in tutto una sessantina, attive in questo momento una quarantina. Stiamo aprendo in questo momento molte convenzioni, ne abbiamo in cantiere una decina, specialmente nel centro Italia e anche nel sud. Mentre in un primo momento abbiamo lavorato soprattutto al nord.
Come vi sostentate? E qual è il discrimine che vi permette di occuparvi dei “bambini non nati”?
Soprattutto tramite i nostri 1200 associati e tramite donazioni da persone sensibili. Noi raccogliamo, tramite le nostre convenzioni, i resti dei bambini non nati fin dal concepimento, senza alcuna distinzione sull’età presunta. La normativa italiana differenzia i resti umani riconoscibili e quelli non riconoscibili. I feti e gli embrioni sotto le 20 settimane li cataloga tra quelli non riconoscibili, da destinare allo smaltimento attraverso i rifiuti ospedalieri. Questo eccetto che vi sia nelle prime 24 ore dall’aborto una richiesta precisa dei genitori di occuparsi personalmente della sepoltura del prodotto abortivo. Se c’è questa richiesta la sanità consegna senza nessun impedimento i resti del bambino alla famiglia. In caso contrario il prodotto abortivo viene destinato ai rifiuti ospedalieri, eccetto che si presenti un’associazione come la nostra che abbia i titoli per formulare una richiesta al direttore generale per raccogliere i resti facendosi carico dei costi organizzativi e assicurativi, utilizzando la prassi prevista dalle norme (con materiali idonei, registri di carico e scarico) per consegnare i resti alle pompe funebri che li portano al cimitero perché siano inumati.
All’atto della sepoltura è previsto un rito religioso?
Noi cerchiamo di essere discreti, affettuosi e gentili. Dopo aver raccolto i resti avviene una piccola cerimonia nella quale si possono esprimere dei pensieri, attraverso anche delle letture di brani della letteratura internazionale, di cui fa parte anche le sacra scrittura che da questo punto di vista non è un testo puramente confessionale, ma è un testo universale. Ci è capitato anche di unirci a famiglie musulmane partecipando alle preghiere con rispetto. E questo è il clima culturale che ci interessa, un gesto di amore”.
Ma a voi e ai vostri interlocutori non è mai venuto in mente che questa pratica potrebbe ledere la libertà di scelta della madre laica o di altra confessione?
“No perché la legge italiana prevede che la famiglia possa esercitare tutti i diritti entro le 24 ore. Una volta che non rivendica il prodotto abortivo la sanità può disporne secondo i propri criteri e la propria esperienza. Il direttore generale può stabilire delle convenzioni con il mondo del volontariato. Tanto che le nostre convenzioni iniziano tutte più o meno così con la stessa frase: “superato il tempo degli aventi diritto”. E le posso dire tra l’altro che ci sono degli ospedali talmente attenti alla dimensione familiare che sono disposti ad aspettare più delle 24 ore strettamente previste dalla legge, arrivando a 36 o 48. La famiglia è assolutamente garantita. Il fatto che non vadano nei rifiuti ospedalieri risponde al principio espresso nel 1988 dal ministro Donat Cattin nella prima circolare ministeriale sul tema, dove si diceva che “lo smaltimento attraverso la rete fognante urta contro il senso comune”. Quando una mamma sapesse che i resti vanno nei rifiuti speciali ospedalieri allora non accetta o li raccoglie per suo conto o li affida volentieri all’associazione che con pietà, senza manifestazioni e manifesti li raccoglie.
Ma non si tratta di un atteggiamento potenzialmente provocatorio?
Noi non facciamo questo per un atto di denuncia o per motivi di propaganda, ma mossi unicamente dal principio dell’uguaglianza fondamentale che dà a ciascun uomo di questo mondo la dignità di persona. Per il rispetto delle spoglie mortali. Il nostro è un atto di pacificazione. Quando si perde un bambino per aborto procurato la sofferenza è grande. È un lutto che spesso viene elaborato assieme agli affetti familiari. Per chi procede verso un aborto volontario non esiste nessuna elaborazione del lutto, è un dramma tutto interiore che la donna soffre spesso con gravi ricadute dal punto di vista della salute mentale e fisica. Questo gesto non è un gesto di denuncia non è un gesto che produce sofferenza, ma un gesto che produce conservazione.
Avete incontrato resistenze nel vostro operato?
Di fatto da parte del personale ospedaliero mai. Anche perché in genere a operare in queste strutture sono donne, mamme, anche di una certa età e sensibili al tema. Da parte dei direttori generali, dove ci siamo rivolti, una volta capite le cose non abbiamo avuto difficoltà. Qualche volta qualcuno, dai radicali alla Cgil, ha fatto interpellanze a Regioni o Comuni. Ma al di là del clamore mediatico, loro stessi hanno dovuto riconoscere che l’iter seguito è perfettamente corretto.