La partecipazione di Caltagirone giovedì sera a Otto e mezzo, la trasmissione di Lilli Gruber su La7, è un colpo della giornalista, la prima a convincere l’ombroso imprenditore romano a esibire la sua simpatica cadenza davanti a una telecamera. Purtroppo però la vera notizia della serata è la conferma che, nel malinconico sfascio dell’economia italiana, gli imprenditori sembrano ormai molto impegnati in esibizioni senili di saggezza un tanto al chilo.
Il Barnum dei talk show, stanco dei politici rissosi, dei sindacalisti noiosi e, diciamocelo, dei poveri che sciorinano le loro bollette di importo crescente sul tavolo di formica della cucina, tentando di conquistare l’interesse di disoccupati e futuri poveri esibendo lo scalpo del ricco che sa come si fa e quindi si presta a domande folgoranti come: “Servono nuovi timonieri o nuove bussole?” per rispondere pronto: “Servono nuove strade”, lasciandoci alle prese con questioni interpretative non banali.
Caltagirone si aggiunge alla ormai lunga lista di suoi colleghi che ormai affollano gli studi televisivi e le pagine dei giornali. Dal banchiere Alessandro Profumo a Franco Bernabè della Telecom, dall’ex presidente di Confindustria Luigi Abete a Oscar Farinetti di Eataly, da Marco Tronchetti Provera della Pirelli a Diego Della Valle della Tod’s.
Tutti opinano con interviste sostanzialmente intercambiabili che l’esordiente Caltagirone ha ricalcato disciplinatamente. Egli non è ricco, bensì dispone “di un patrimonio rilevante” che non quantifica, frutto di 47 anni di lavoro indefinito. Benedice la capacità di cambiamento dimostrata dalla Chiesa con l’elezione di papa Bergoglio, e maledice l’incapacità di cambiare dell’Italia, dove lui, in quanto imprenditore, non ha responsabilità su ciò che ha portato l’Italia sull’orlo del baratro che pure egli ci preannuncia lugubre.
Il fatto è che gli imprenditori sono esseri perfettissimi e mondi di peccato. Lei è stato grande azionista di Monte Paschi e adesso lo è di Unicredit – chiede Gruber – pensa che le banche abbiano responsabilità sulla crisi economica?. No. E comunque Caltagirone non ha niente da dirci sullo scandalo Montepaschi, cresciuto sotto i suoi occhi per anni. Dice che la cementificazione dell’Italia non è colpa dei costruttori ma dell’abusivismo, parla dei 18 anni spesi per un permesso edilizio ma non dice una parola sui suoi rapporti con la giunta Veltroni (2001-2008) che in articulo mortis approvò un piano regolatore per Roma di cui si ricorderanno molte generazioni.
In questo perdersi voluttuoso nel proclamare la sua simpatia per Matteo Renzi, e anche in parte per Beppe Grillo, nel dichiarare finito il feeling politico (ma forse anche personale, a giudicare dal tono) con il genero Pier Ferdinando Casini, nel liquidare Mario Monti (con cui il genero ha fatto ditta) con un giudizio dei più sprezzanti (ha distrutto coesione sociale e industrie per proteggere i percettori di rendite), nel commentare le vicende del Corriere della Sera, di cui apprezza l’autonomia concessa ai giornalisti, ma senza nulla dire sul suo Messaggero, in tutto questo pavoneggiarsi, Caltagirone, come i suoi colleghi, ci trasmette un verdetto disperante: questi capitani d’industria opinano ma non imprendono, e non hanno nulla da dire sulle loro aziende, sui progetti, sulle difficoltà, sul futuro.
È una storia finita, la loro, di cui restano solo, alle volte, i litigi e gli intrighi. E viene da chiedersi quale coraggio potrà mai infondere a un giovane disoccupato questo auto-funerale dell’industria italiana in formato audio-video.
il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2013