A distanza di anni, in seguito a un radicale cambio di line up, oggi i Nosound sono una delle migliori band progressive-rock al mondo, e a testimoniarlo c’è il fatto che la celebre Kscope abbia deciso di scommettere su di loro producendoli.
Da qualche giorno è uscito il loro nuovo disco, intitolato Afterthoughts, composto da 9 brani, con un sound prevalentemente cupo, ma con improvvise schiarite, a tratti claustrofobico e con temi ricorrenti, in cui lunghe parti strumentali sono interrotte da suoni acustici che rendono il tutto ancora più equilibrato. Ignorati quasi del tutto in Italia, scorgendo le classifiche dei magazine britannici ci si accorge che i Nostri occupano le prime posizioni, sovrastando band che inizialmente erano per loro addirittura modelli interpretativi. Come i Porcupine Tree, la cui influenza, in questo disco, è ancor più marcata dalla presenza del batterista Chris Maitland, che nel gruppo guidato da Stephen Wilson ha militato nel periodo di maggior splendore.
Giancarlo, anche in questo disco, come i precedenti, resta intatta la vostra capacità di saper trasportare nella dimensione a voi più congeniale. Mi racconti com’è nato questo disco?
Questo disco ha avuto in verità una gestazione abbastanza lunga, non tanto in termini di scrittura o registrazione, quanto piuttosto in termini di “passaggi”. Dopo il nostro ultimo lavoro in studio, A Sense Of Loss, ho avuto bisogno di staccarmi da alcune tematiche, di vivere nuova vita da poter raccontare, dedicandomi ad altri progetti. La scrittura di quasi tutto il materiale è avvenuta in un periodo relativamente breve, e con un’idea precisa dell’evoluzione che doveva avere, proseguendo il percorso Nosound all’interno di una evoluzione naturale anziché forzare cambiamenti che non fossero dettati dall’ispirazione artistica. Proprio prima di cominciare la fase di registrazione di gruppo la band ha subito un cambiamento alle tastiere e batteria, e questo inizialmente ha destabilizzato il tutto. Poi invece l’arrivo di Marco Berni alle tastiere e di Giulio Caneponi alla batteria ha portato una bella ventata di entusiasmo che ha aiutato moltissimo a mantenere e poi realizzare al meglio l’idea originale che c’era dietro, e che personalmente penso si sia concretizzata nel miglior album Nosound. Il ritorno poi di Marianne DeChastelaine al violoncello e il contributo di Chris Maitlant dietro le pelli ha reso l’album a un tale livello qualitativo che non ne cambierei neanche un singolo secondo.
Si intitola “Afterthoughts” il vostro nuovo disco, composto da 9 brani in cui le influenze dei Porcupine Tree sono addirittura evidenziate dalla presenza di Chris Maitland, che in questa band ha militato per un bel po’ di anni. Come è avvenuto questo incontro e cos’è che credi abbia apportato alla vostra band?
Sono in contatto con Chris sin dai tempi di Sol29 (l’album di debutto della band, nda) e ci siamo risentiti di recente. Gli cominciai a parlare del nuovo album e l’idea era di partecipare come ospite in uno o due brani. Nel mentre, i cambi nella band a un certo punto ci hanno fatto ritrovare per un periodo senza batterista e ho telefonato a Chris chiedendogli se voleva fare tutto il disco, e lui ne è stato molto contento perché gli piaceva il materiale e poteva in questo modo dare una sua impronta più marcata e coerente al tutto. Sicuramente alla fine è proprio ciò che è avvenuto, il suo stile inconfondibile si è fuso con la nostra musica, e nessuna delle due parti è prevalsa, favorendo invece una nuova combinazione, che era ciò che volevamo.
In Inghilterra, addirittura, scorgendo le classifiche dei magazine specializzati mi sono accorto che siete primi e che sovrastate il disco di Stephen Wilson stesso e dei Porcupine Tree al completo. A voi che avete iniziato con loro che erano i vostri modelli interpretativi e adesso vi ci trovate a confrontarvi direttamente, che effetto fa?
Sì in effetti è stata una sorpresa meravigliosa. C’è stato un lavoro e fiducia enormi da parte di tutti (etichetta compresa) e la campagna di preordini è stata un successo. In quella classifica i dischi di Wilson e dei PT erano già usciti da pochi mesi, ma quella classifica è stata un successo, una bella soddisfazione! L’effetto che fa a essere con certi nomi, album dopo album credo sia sempre lo stesso: inizialmente è bello e salutare, subito dopo è uno stimolo e una responsabilità a voler fare meglio e di più. Da artista non ha senso fare un nuovo album se non penso e sono sicuro che sia migliore di quanto fatto prima, e alzare l’asticella sempre di più è fondamentale nella musica, così come nella vita.
Prestate sempre un occhio di riguardo alle immagini che accompagnano la vostra musica, all’artwork dei vostri cd, e il video di “Wherever you are” conferma come in questo disco abbiate lasciato emergere l’aspetto poetico, molto di più rispetto al passato. Lo pensi anche tu?
Sì credo di sì, assolutamente e sono contento tu lo abbia notato anche attraverso le immagini, sempre molto importanti per noi. Credo sia in generale un disco molto più maturo perché sapevo ed ero sicuro dall’inizio di ciò che avevo scritto e che volevo dire. Questo ha portato a una maggior coesione, in un certo senso a sentirmi più libero di usare “licenza poetica”, e ciò ha determinato una scrittura più marcata e un ascolto realmente libero dell’ispirazione, senza ragionamenti o pianficazioni, che sono per me molto dannose a chi invece ha dell’arte un’idea più pura.
Ti sei definito “un musicista in fuga” . Oggi l’argomento torna, per via di un verso di una tua canzone “…forse è ora di lasciar scorrere le cose / Forse è tempo di arrendersi / Prendere questo aereo / E volare via per sempre” e poi nella canzone “Paralysed”, in cui canti in italiano chiaramente la tua nostalgia per un tempo ormai andato… La decisione è definitiva, anche se la speranza è l’ultima a morire?
Il problema credo sia capire dove indirizzare la speranza in un certo senso, se nel poter tornare o nel voler restare! Quei versi in effetti sono nati inizialmente con riferimenti completamente diversi e non collegati al mio andar via, piuttosto a vicende più interpersonali e personali. Mi è piaciuto però poi l’ovvio collegamento anche con la mia decisione, e quindi sono contento che poi tanti lo hanno interpretato in questo modo dando in un certo senso una seconda vita a quelle parole. La mia decisione di vivere fuori al momento è ancora decisiva, per il semplice fatto che non sono ancora stato in grado di capire come potrei fare in Italia a dedicare la mia vita alla musica senza dover scendere a compromessi artistici o di vita che di fatto lo renderebbe impresa impossibile o arrangiata. Le qualità artistiche di musica “altra” e di livello internazionale piuttosto che locale, e il lavoro in studio e con etichette che svolgo fuori, sono capacità che in Italia non pagherebbero, in senso letterale e figurato. Il mio sogno resta quello un giorno di avviare e basare il mio studio e la mia attività di produzione nel centro/nord Italia (Toscana, Umbria, Abruzzo, regioni a cui sono molto legato), e poter offrire ai gruppi italiani una produzione di respiro internazionale e ai gruppi stranieri un qualcosa di “nostrano” durante il loro soggiorno che possa trasmettersi nella loro musica. Ma per far ciò occorre il supporto (economico, sociale, burocratico) e la modernità che in Italia non trovo, mentre fuori ho già cominciato… ma come dici correttamente, e come ho cercato di comunicare con Afterthoughts, la speranza è per me sempre l’ultima a morire… semmai muore!