Veicoli di investimento formalmente in vita ma, di fatto, inattivi da tempo. Conservano gli stessi asset da anni, non pianificano operazioni future e, soprattutto, non possono realizzare profitti. Però costano sia al sistema finanziario, cui distolgono risorse importanti, sia agli investitori, sui cui continuano a caricare commissioni
Nel gergo finanziario si chiamano “fondi zombie”. Veicoli di investimento formalmente in vita ma, di fatto, inattivi da tempo. Conservano gli stessi asset da anni, non pianificano operazioni future e, soprattutto, non possono realizzare profitti. Però costano: sia al sistema finanziario, cui distolgono risorse importanti, sia agli investitori, sui cui continuano a caricare commissioni. Insomma, un’ennesima anomalia finanziaria. Nella cosiddetta “business community” se ne discute da qualche tempo con una certa preoccupazione. Nel solo mercato asiatico, ricorda in questi giorni la rivista di settore Asian Investor, ci sarebbero 18 miliardi di dollari di assets bloccati in veicoli di investimento completamente inattivi. In India, nel settore del private equity, il sostanziale coma finanziario caratterizzerebbe ormai un fondo su due. A diffondere le cifre più aggiornate del fenomeno è stata in queste settimane la società di analisi finanziaria Prequin secondo la quale le private equity controllerebbero qualcosa come 1.200 fondi in stato vegetativo. Il controvalore degli assets gestiti da queste ultime, vale a dire i titoli svalutati detenuti in portafoglio, ammonterebbe su scala globale ad una cifra impressionante: 116 miliardi di dollari.
Le private equity sono salite alla ribalta negli anni 2000 per i loro celebri investimenti ad elevato valore aggiunto. Il meccanismo è relativamente semplice: si raccolgono i capitali degli investitori e si acquistano altre società con l’obiettivo di ristrutturarle, eventualmente scorporarle, e successivamente rivenderle ad un prezzo superiore. L’operazione richiede un tempo tecnico solitamente compreso tra i 3 e i 5 anni, un periodo durante il quale il denaro viene bloccato in un fondo. Se il piano funziona la vendita genera un profitto da distribuire agli investitori al netto, ovviamente, delle commissioni che questi ultimi hanno pagato ai gestori. Ma cosa accade se l’operazione non va in porto?
La vicenda dei fondi zombie è tutta in questa eventualità. Accade ad esempio che il momento di concludere l’affare, le società di private equity si accorgano che gli assets detenuti invece di apprezzarsi si sono svalutati. Così, invece di metterli in vendita generando una minusvalenza, decidono di tenerli in vita artificialmente anche se molto difficilmente si rivaluteranno nel tempo. Gli investitori, dal parte loro, rimangono bloccati e, ovviamente, continuano a versare le commissioni periodiche ai gestori. Un bel problema soprattutto per i fondi pensione che, negli Stati Uniti, non disdegnano affatto l’investimento nelle operazioni di private equity: i costi si accumulano nel tempo e le perdite conclusive sono solo rimandate. Con una inevitabile ricaduta sulle pensioni degli impiegati statali e della middle class in genere, spesso ignara dei dettagli tecnici che accompagnano gli investimenti previdenziali.
Già lo scorso anno, notava il Wall Street Journal, la Sec aveva annunciato l’intenzione di vederci chiaro promettendo di scandagliare il portafoglio degli investimenti dei fondi zombie con particolare attenzione per quelle valutazioni di prezzo rimaste immutate per troppo tempo. Ovvero per quei bilanci palesemente gonfiati e non più in linea con i valori reali del mercato. “I fondi zombie sono un chiaro esempio di asimmetria di interessi tra i gestori e gli investitori” ha commentato il direttore della divisione Private Equity di Prequin, Ignatius Fogerty in una nota diffusa con il rapporto. Per questo, aggiunge, “i gestori dovrebbero essere ansiosi di concludere gli investimenti e restituire il capitale” scongiurando così “il danno di reputazione”. In questo senso, conclude “il mercato secondario contribuisce in qualche modo ad offrire una soluzione”.
Il capitolo finale, insomma, potrebbe essere già scritto: dove non arrivano i profitti giungono provvidenziali gli immancabili spazzini del secondary market. Ovvero i nuovi investitori attratti dalla possibilità di prendersi gli assets a prezzo di saldo. Un’opportunità sempre attraente. Il mese scorso, ricorda la Reuters, due grandi operatori del settore come Kirchner Group e Crestline Investors, quest’ultimo un fondo speculativo, hanno realizzato una joint venture con l’obiettivo di acquisire i fondi comatosi delle private equity. Crestline, ricorda l’agenzia, gestisce attualmente un portafoglio di assets pari a 7,3 miliardi di dollari.