Siria, forse, esterno giorno in una campagna non meglio identificata: tre uomini incappucciati vengono fatti inginocchiare al grido di “Allah akbar” (Allah è grande) da uomini vestiti con gli abiti tradizionali, invernali però, musulmani. Uno di loro a un certo punto si gira verso una delle tante telecamerine inserite negli smartphone della platea festante: “Questi cristiani verranno uccisi perché sono degli infedeli collaborazionisti del regime di Assad“, spiega da sotto il cappello simile a quello indossato dai mujaidin afghani. Dopo una decina di minuti inizia il sacrificio umano: i tre vengono sgozzati come capri espiatori al macello e quindi decapitati con gran profusione di energia del boia, che ha impiegato un bel po’ di tempo -causa coltello troppo piccolo – ad alzare verso i cellulari di ultima generazione le teste dei 3 “poveri cristi”, spacciati per alcuni frati francescani che ora vivono in un rifugio sconosciuto nella zona di Idlib in Siria, dopo che il loro convento è stato attaccato il 23 giugno scorso forse dai ribelli jihadisti che da mesi sono entrati in Siria per disarcionare Assad e fondare un califfato islamico transnazionale.
Il custode di Terra santa, padre Pizzaballa, ha subito smentito che si trattasse di frati francescani. Chi sono dunque le vittime e, soprattutto, chi sono i carnefici? Tralasciando la scelta discutibile da parte di Radio France di mettere sul proprio sito un video che ha toccato lo zenit della spietatezza – provocando anche in chi è abituato agli orrori della guerra un moto di disgusto mai provato prima -, questo episodio di sconvolgente barbarie dovrebbe spingerci a riflettere in modo decisamente più approfondito su due questioni.
La prima riguarda la pubblicazione sui media, giornali, radio e tv, dei video girati attraverso gli smartphone da persone sconosciute, dunque da fonti inattendibili. Siccome anche gli analfabeti – come molti africani, pakistani, afghani, indiani – riescono senza problemi a girare un video con uno smartphone e a metterlo in rete, bisognerebbe interrogarsi se sia il caso di dar corda a speculazioni, ben che vada, ciniche e squallide. Chi ha ordito questo raccapricciante video? Chi ha convocato decine di derelitti ignoranti, privi di qualsiasi capacità di discernimento, per farli gridare a comando “Allah Uakbar” (Dio è grande) davanti alle telecamerine degli Iphone, ogni volta che una testa veniva staccata dal tronco? Per chi lavoriamo noi giornalisti? Per i nostri lettori o per aiutare dei “bastardi senza gloria” ad ottenerla e ad arrivare al vertice della divisa, composita e complessa galassia della ribellione siriana, oggi incrociata con il jihadismo islamico? O magari, senza rendercene conto, mostrando filmati di questo genere, aiutiamo le squadracce di shabiha, cioè i miliziani in borghese del laico Bashar al Assad, a far passare il messaggio che i ribelli, che oggi lo combattono, sono solo dei mostruosi estremisti islamici assetati di sangue cristiano?
E qui arrivo alla seconda questione: nonostante si tratti di fonti parziali, sconosciute e discutibili, quelle che postano questi video o che danno aggiornamenti sulla situazione all’interno del Paese, dobbiamo per forza utilizzarle? Con la scusa di informare, non produciamo così forse ancora più confusione e diffondiamo magari falsità o rumori inutili ancorché da trauma psichico? Eppure non si può farne a meno nell’era digitale, nell’era della comunicazione super veloce e dei social network-contenitori dalla capienza infinita di qualsiasi cosa. Il citizen jounalism è fondamentale ma, soprattutto nei teatri di guerra, soprattutto nei conflitti civili, deve essere affiancato da giornalisti esperti sul campo, dagli inviati di guerra con più esperienza.
Ecco perché professionisti come Domenico Quirico, che ancora non è tornato tra noi ma sappiamo che è vivo, sono fondamentali per i lettori, per l’opinione pubblica in generale. E non sono dei pazzi incoscienti come pensano in molti, che vanno a rischiare torture e la morte per il gusto del brivido.