Non vi racconto la mia vita, ci mancherebbe. Sono esercizi di stile, mi hanno detto. Avete presente Queneau? Certe volte da una piccola vita, possiamo spiare il mondo, potete credermi. Sicché al tempio vedevo il signor M., l’uomo della ronda, delle coperte e dei thermos di latte caldo da distribuire ai lerci, la notte. Il tempio è un modo di dire, non è un tempio, è una piazza. Lerci era un termine che cominciavo ad avere a noia, lo usavo come sostantivo molto spesso.
Il signor M. mi aveva informato sulla salute di Jolka, malata di cancro al seno. Jolka viveva nella casa occupata dai polacchi, il rudere di via Nino Bixio. Pensavo che l’avessero abbattuta o murata. Sfondavano comunque, i barboni, devo desumere. Jolka aveva il braccio destro spaventosamente gonfio, continuava a bere, a dormire dove capitava, ad andare con chi capitava. Jolka è finita in uno dei miei romanzi. Il fatto è che in letteratura la verità non si può dire se non mentendo, me lo confidò uno scrittore vero, Dario Voltolini, parecchi anni fa. Nel romanzo chiamo Jolka col suo vero nome, ma le attribuisco un destino diverso da quel che realmente le accadde. Non è il caso di spiegare didascalicamente personaggi, trame e snodi, anche perché non son sicura che siano all’altezza.
Ricordo scritti sugli apolidi dell’est che a Natale avrebbero versato lacrime nere sulla zuppa di cetrioli e panna acida, ho smesso con l’apologia dell’emigrante ok; con l’emigrante che conta sulle dita i chilometri in mezzo tra lui e il mondo giusto, che è sempre quello degli altri. Sì, ho accompagnato con gli occhi pullman in partenza destinazione Ostrowiec, Kielce, Konskie, Tomaszow; dovevo guardare oltre, spegnere tutti i neon in città, le lucine sfolgoranti del corso, riporre il fazzoletto bianco in borsa, scrollare le spalle, augurare buon viaggio al drop out senz’anima.
Dovevo guardare oltre. Sono esercizi di stile, abbiate pazienza.
(continua)