Il segretario di Stato americano risponde alle critiche europee sullo spionaggio informatico. "Non è inusuale che i paesi intraprendano attività per proteggere la loro sicurezza nazionale". Gli Stati uniti puntano tutto sulla Cina, giudicato un partener più affidabile
Quasi tutti i governi, non soltanto gli Stati Uniti, usano “diversi strumenti” per salvaguardare i loro interessi nazionali e la loro sicurezza. La risposta del segretario di stato americano John Kerry, in visita nel Brunei, non sembra fatta per placare le polemiche e le preoccupazioni degli alleati europei, vittime – secondo resoconti giornalistici di “Der Spiegel” e “The Guardian” – di intercettazioni e spionaggio da parte della National Security Agency. Kerry, che nel Brunei ha incontrato la rappresentante per la politica europea, Catherine Ashton, ha aggiunto che la ricerca delle informazioni sugli altri Paesi non è “inusuale” e che farà tutto quanto è in suo potere per “cercare di scoprire esattamente cosa è successo” .
La prima reazione ufficiale statunitense alla notizia degli alleati europei “intercettati” è quindi di sostanziale “sospensione del giudizio”. L’amministrazione americana non conferma né smentisce. Ciò che di solito, nel linguaggio della diplomazia, equivale a una conferma. Del resto è lo stesso governo Usa ad ammettere che i resoconti giornalistici – nutriti delle rivelazioni di Edward Snowden – hanno una qualche veridicità. In una dichiarazione da Washington, il direttore della “National Intelligence” ha spiegato che “come prassi, abbiamo già chiarito che gli Stati Uniti raccolgono intelligence del tipo raccolto da ogni altra nazione”.
L’improvvisa freddezza nelle relazioni europeo-statunitensi mette dunque a rischio il trattato di libero scambio, il “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, i cui negoziati dovrebbero iniziare l’8 luglio, ma si colloca in un quadro di relazioni bilaterali sempre meno facili. E’ stato del resto proprio l’ex-consigliere alla sicurezza nazionale, Tom Donilon, qualche settimana fa a un incontro con la stampa alla Casa Bianca, a spiegare che “gli Stati Uniti nel futuro si concentreranno sempre più su Asia e Cina”. L’incontro in California tra Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping ha ulteriormente alimentato le speculazioni, e le preoccupazioni europee, sull’ormai preponderante interesse americano nel Pacifico – “il Mare Nostrum del 21esimo secolo”, come l’ha definito il “Washington Post”.
Anche perché, nei confronti di possibili e redditizie relazioni commerciali con Pechino, Stati Uniti ed Europa non sono più alleati, ma concorrenti. L’Unione Europea, negli ultimi mesi, ha faticato a mantenere un atteggiamento comune verso la Cina – la questione delle divisioni europee sui dazi cui sottoporre i pannelli solari cinesi ne è soltanto un esempio – . Pechino, alla fine, potrebbe ritenere Washington un partner commerciale più affidabile rispetto alla litigiosa coalizione dei 28 Paesi europei. La calorosa accoglienza riservata da Obama a Xi Jinping, le dichiarazioni di stima e le offerte di collaborazione – non scalfite neppure dall’asilo temporaneo per Edward Snowden a Hong Kong – mostrano ormai chiaramente da che parte guardi Washington.
Non è soltanto la questione dei rapporti con la Cina a portare gli Stati Uniti lontano dall’Europa. Anche nei confronti dell’India gli interessi di Usa e Ue appaiono divergenti (l’accordo tra Washington e New Delhi sulla tecnologia nucleare per usi civili, del 2006, non fu nemmeno comunicata in anticipo da Washington ai governi europei). I rapporti tra Stati Uniti e Paesi europei in seno alla World Trade Organization si sono rivelati negli ultimi anni molto difficili, come pure quelli tra lo European Security and Defence Policy e una Nato sempre meno capace di trovare una propria ragione d’essere militare e strategica. Quello che poi è soprattutto fallito, dal punto di vista americano, è il tentativo di condividere con l’Europa oneri e sforzi di una missione globale che gli Stati Uniti, per ragioni economiche, militari, sociali interne, non possono più svolgere da soli. A questo doveva anche servire l’ascesa alla Casa Bianca di Barack Obama. A migliorare la percezione degli Stati Uniti in Europa, a rendere le opinioni pubbliche europee più disponibili a una collaborazione globale con Washington.
L’elezione di Obama ha sicuramente migliorato la percezione. Un sondaggio del German Marshall Fund of the United States (GMF), un think tank americano, mostra che il 75% degli europei interpellati pensa che Obama stia gestendo bene la politica estera (contro il 20% del 2008, con George W. Bush presidente). La differente percezione non si è però concretizzata in un cambiamento di politica. Ancora in questi mesi, più e più volte, il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno, in rapporti riservati e discussioni interne, mostrato il loro disappunto per la scarsa disponibilità europea a farsi carico delle questioni geo-politiche e della sicurezza globali. In altre parole, come una fonte del Dipartimento di Stato ha di recente spiegato alla rivista “National Interest”, “gli europei sono rimasti agli anni ’50, a contare quasi unicamente sulla forza militare e diplomatica americana”. Ciò, con lo spostamento naturale del baricentro mondiale sul Pacifico, ha finito per rendere l’Europa un alleato sempre meno attraente per Washington. In molti casi, anzi, l’Europa è diventato un concorrente fastidioso e temibile, da spiare e controllare. Come il recente scandalo intercettazioni dimostra.