Il diabete mellito giovanile di tipo 1 è una malattia che, se non trattata, risulta mortale. La probabilità di ammalarsi risulta pari a circa 0,3%, ed i malati di questo tipo di diabete costituiscono circa il 10% del totale di tutti i diabetici. Il diabete di tipo 1 è un disturbo del metabolismo del glucosio ed è causato dalla distruzione autoimmune delle cellule che producono l’ormone insulina, situate nelle isole di Langerhans del pancreas. In assenza di insulina (un sinonimo di diabete di tipo 1 è diabete insulino-privo) le cellule del nostro organismo non possono assorbire il glucosio, che rimane nel sangue, causando l’iperglicemia, e finisce poi nelle urine. La terapia, per ora, è sostitutiva: il paziente deve somministrarsi insulina umana ricombinante (cioè prodotta da batteri geneticamente modificati) per via sottocutanea. Purtroppo, al di la dell’impegno per il paziente, la terapia non è completamente soddisfacente e nel lungo periodo non riesce ad evitare danni a vari organi: quali la retina o il sistema nervoso periferico.

Una vera cura del diabete di tipo 1 è sostanzialmente impossibile, al momento: già al suo esordio clinico, o comunque dopo breve tempo, le cellule produttrici di insulina scompaiono dal pancreas e non è più possibile farle ricrescere. Di fatto la condizione del diabetico è in un certo senso analoga a quella di una persona che abbia perduto un arto per un incidente. Anche il trapianto di cellule delle isole di Langerhans non sortisce effetti duraturi: la sopravvivenza delle cellule trapiantate è infatti piuttosto breve e nello spazio di mesi il paziente ritorna insulino-dipendente.

Un articolo pubblicato recentemente dall’equipe del prof. L. Steinman suggerisce un possibile approccio terapeutico, o almeno preventivo, basato sulla somministrazione di un frammento di DNA codificante per la proinsulina. Questo studio fa seguito ad uno precedente condotto su topi di ceppo NOD, geneticamente selezionati per la precoce insorgenza di una forma di diabete autoimmune analogo al diabete umano di tipo 1, trattati con un vaccino contro i linfociti di tipo B e con un frammento di DNA codificante la proinsulina: il trattamento non era stato in grado di guarire il diabete già in atto, ma ne aveva prevenuto significativamente l’insorgenza. Questa terapia preventiva appartiene ad una famiglia di terapie che vengono studiate per le allergie e le malattie autoimmuni, ed ha lo scopo di indurre la tolleranza immunitaria nei confronti di un antigene specifico: Steinman la definisce un “vaccino al contrario”. Il nostro sistema immunitario reagisce al contatto con sostanze esterne all’organismo producendo molecole (anticorpi) e cellule (linfociti T) specificamente reattive con funzioni difensive. Nei confronti delle sostanze proprie dell’organismo il sistema immunitario non reagisce: è tollerante. La tolleranza fisiologica è il risultato di un processo di selezione clonale a causa del quale i linfociti autoreattivi vengono eliminati. La selezione clonale avviene nel feto e nel neonato; indurla nel bambino o nell’adulto non è facile e richiede speciali combinazioni di anticorpi e vaccini, la cosiddetta immunoterapia antigene-specifica.

In che misura queste ricerche saranno in grado di curare o prevenire il diabete? E’ improbabile che la vaccinazione antidiabetica si riveli praticamente applicabile in tempi brevi per la prevenzione del diabete: gli effetti collaterali non sono stati sufficientemente studiati e l’operazione andrebbe condotta sull’intera popolazione. Poiché la prevalenza del diabete di tipo 1 è dello 0,3%, anche una frequenza modesta di effetti collaterali potrebbe rivelarsi gravosa; inoltre il grado di protezione (nel topo NOD) non è ancora soddisfacente. E’ invece plausibile che l’uso dell’immunoterapia antigene-specifica possa prolungare la sopravvivenza di cellule di pancreas trapiantate per curare la malattia già insorta. Questa possibilità, pur non essendo attuale, potrebbe risultare praticabile nel prossimo futuro.

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