Il boss cambia strategia proprio all'inizio del processo, spiegando che a farlo arrestare furono Provenzano e Ciancimino. Le parole del capomafia, che non collabora con la giustizia, sono finite in una relazione degli agenti che oggi è stata depositata agli atti
Totò Riina conferma l’esistenza delle trattativa Stato-mafia, cambiando strategia proprio all’inizio del processo. “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”, ha detto, spiegando che a farlo arrestare furono Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino. Le parole del capomafia, che non collabora con la giustizia, sono finite in una relazione degli agenti che oggi è stata depositata agli atti del processo sulla trattativa insieme agli interrogatori delle guardie carcerarie. Il documento è stato inviato ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia: Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Il boss conferma quindi le dichiarazioni del figlio di Ciancimino, Massimo, che ha raccontato ai pm che furono il padre e Provenzano a fare arrestare Riina ai carabinieri a gennaio del 1993. Il padrino ha fatto poi riferimento alla circostanza che qualcuno sarebbe andato da lui: una frase poco chiara che potrebbe alludere al tentativo di dialogo avviato dal Ros con Riina attraverso Vito Ciancimino, che avrebbe segnato l’avvio della trattativa. E’ la prima volta che il capo di Cosa nostra parla della trattativa. Nei suoi interrogatori ha infatti sempre negato, difendendo il suo complice Bernardo Provenzano.
Rispondendo a una domanda di un agente della polizia penitenziaria, il 21 maggio scorso, su Giulio Andreotti, Riina ha detto che “era un galantuomo” e ha rivelato di essere “da sempre dell’area androttiana”. A riferire il particolare ai magistrati di Palermo è stata la stessa guardia carceraria che ha depositato sul suo colloquio con il boss mafioso.
Nel corso dell’udienza di questa mattina, i pm Di Matteo e Tartaglia hanno risposto alle eccezioni presentate dagli avvocati della difesa. “Il reato di falsa testimonianza contestato all’ex ministro Nicola Mancino non è ministeriale”, hanno detto, “perché è stato commesso quando l’imputato non rivestiva più incarichi di governo e in ogni caso non vi è un legame funzionale con tali incarichi”. Per questo motivo la procura ritiene che il processo debba restare a Palermo e non essere traferito a Roma, come hanno chiesto i legali di Mancino.