Marco Cubeddu, vorrei ragionare su quello che hai scritto sul tuo quotidiano, Il Secolo XIX. Anzi, di quello che hai visto e ti ha molto turbato. Tanto, da aspettare 15 giorni prima di prendere la tastiera e trovare (purtroppo) il coraggio di scriverne.
Riepiloghiamo. Eri disteso su una panchina a Villa Borghese, in una calda giornata di giugno, quando sei stato travolto da una “nube di quartine”, cioè quelle di quarta ginnasio, le quattordicenni insomma. Sì lo so, erano in shorts e minishorts , lo hai specificato molto bene che “il jeans arrivava molto più in alto della fine dei glutei”, poi “le ragazzine si toglievano le magliette e restavano in reggiseno. Altre, con le magliette bagnate per i gavettoni, il reggiseno non lo indossavano”. Hai descritto minuziosamente una scena che pare appartenere più al repertorio pruriginoso di un porno soft , che ad una reale giornata di vacanza con adolescenti che giocano a lanciarsi gavettoni. Una scena già abbastanza insolita per Roma, ma che tu dici di aver visto persino in Sardegna, “in paesi molto piccoli”, ma grandi abbastanza per ospitare torme di “ragazzine, giovanissime, con una parte consistente di chiappe in vista“. Proprio così, “chiappe in vista”.
Abbiamo capito. Ti turba, e anche molto, il fatto che in estate le ragazze possano andare in giro scoperte. Ma qual è il passaggio mentale che ti porta ad associare il gioco gioioso di adolescenti in shorts e la bestialità dello stupro? Sono trascorsi appena sei mesi da quando don Piero Corsi attaccò sulla bacheca della parrocchia di Lerici l’editoriale pubblicato da Pontifex in cui rivendicava il concetto per cui “le donne “si vanno a cercare” la violenza, perché “provocano” con il loro abbigliamento o comportamento. Sono seguite manifestazioni e proteste per quel gesto di grave irresponsabilità di un prete che propugnava una morale bigotta e da Italia anni ’50. Un morale stravecchia e stantia, ma ancora tra noi come uno zombie, riesumata dal maschilismo di casa nostra, dai luoghi comuni, dalla sessuofobia e dagli stereotipi sulla violenza.
Quella morale che attribuisce alle donne la responsabilità della violenza e dello stupro. Cuseddu, non a caso, mette in bocca a una donna il concetto terribile per cui “se una si mette in short o minishort non si lamenti se poi viene stuprata”. Non ha il coraggio di dirlo il prima persona. Anzi, qualche riga più sotto si premura di farci sapere che non ha nulla contro quelle che si vestono così, anzi, è persino nostalgico di Daisy Duke “che in Hazzard recitava sempre con gli short”.
Caro Cubeddu, un invito: lascia perdere le considerazioni sulle politiche di genere, la corruzione in parlamento e la violenza domestica, perché non sono argomenti da liquidare con chiacchiere da bar. Le donne muoiono continuamente in Italia, vittime dei loro ex mariti, ex compagni, padri o fratelli. Sono uccise spesso perché hanno carattere e non perché abbiano scarsa personalità. Gli assassini non sono “zotici” ma uomini in giacca e cravatta, cosiddetti “per bene” o “bravi ragazzi”. Evita di definire “idiota” la parola femminicidio. Perché la cultura del femminicidio è quella che tu stesso hai snocciolato nel tuo post, ovvero la cultura che giustifica la violenza nei confronti delle donne quando non rispettano un codice di comportamento imposto dalla morale, dalla religione o dalla società in cui vivono. Il parlamento ha ratificato la Convenzione di Istanbul che definisce la violenza contro le donne “una violazione dei diritti umani”. Non sono i vestiti femminili che alimentano la violenza ma quella cultura che percepisce le donne come soggetti semi-liberi. Dove cresce e si alimenta quella cultura? Nei pensieri di chi guarda donne o adolescenti che giocano ma vede solo parti anatomiche: glutei e seni, quelli sì in libertà.
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