Quindici anni di solitudine. Di fuga, di isolamento. Per lei e sua figlia. Nessun contatto con la famiglia, nessun amico. Per loro ormai è un’“infame” e l’hanno cancellata dalle loro vite. Nessuno a cui poter raccontare il suo passato. Un nuovo nome, una nuova identità. È la storia di Maria Stefanelli, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta dal 1998, dopo una vita di violenze e brutalità. Una voce che fuori dai tribunali nessuno ha mai sentito, e oggi, per la prima volta, decide di spezzare il silenzio. Il motivo è la decisione dei giudici di Torino – Paola Trovati, Diamante Minucci e Alessandra Salvadori, chiamate a emettere il verdetto di primo grado nel maxi processo sulla ‘ndrangheta in Piemonte ora alle battute finali – di revocare l’ordinanza di custodia cautelare per Rosario Marando, elemento di spicco della famiglia di Platì (Rc) che da 30 anni comanda a Volpiano, nell’hinterland torinese.
“Sono molto preoccupata per l’incolumità della mia cliente”, dice l’avvocato Cosima Marocco. “Rosario Marando ha più volte espresso un fortissimo livore nei suoi confronti, sia al processo Minotauro, dove è imputato per associazione mafiosa, sia al processo Stefanelli, in cui è accusato di omicidio. Era detenuto per narcotraffico, sarebbe dovuto uscire nell’aprile del 2014, invece con un cumulo di pena è riuscito a estinguere i mesi residui e dunque ora è fuori”. Nel processo riaperto per la morte di Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso – per il quale nel 2000 era già stata pronunciata una condanna per il fratello Domenico Marando e per Giuseppe Leuzzi, condannati all’ergastolo –, Rosario Marando è stato protagonista di un colpo di scena: “So dove sono sepolti i tre cadaveri, ce li ho messi io”, ha affermato lo scorso aprile, interrompendo l’udienza e portando giudici, pm e avvocati nel boschi della Vauda, a Volpiano. Ad oggi le ricerche non hanno portato risultati.
Signora Stefanelli, come ha reagito alla notizia della liberazione di Marando?
Sono terrorizzata. Non dormo e non mangio da giorni, sono ripiombata nell’incubo di anni fa. Rosario Marando appartiene a una famiglia potente di ‘ndrangheta, una famiglia di assassini oltre che di grandi trafficanti di droga. E lo so perché sono sua cognata. Ne ho sposato il fratello, il boss Francesco Marando, di cui sono rimasta vedova nel 1996, quando è stato ammazzato e bruciato nei boschi di Chianocco (To) dai miei familiari, con cui era finita l’intesa negli affari. Il nostro era stato un matrimonio combinato, come avviene nelle famiglie mafiose calabresi. Non ho mai pensato che i Marando dal carcere si fossero dimenticati di me, ma ora mi preoccupa il fatto che Rosario e Domenico si siano palesemente riavvicinati dopo la grossa rottura dovuta alla spartizione del tesoro del loro mitico – in ambienti criminali – fratello Pasqualino. Dalle sue deposizioni ai processi Rosario ha lanciato palesi messaggi, l’ultimo interrogatorio con il pm Roberto Sparagna sembrava un duello. Bisogna interpretarlo il linguaggio della ‘ndrangheta. Sapere che i fratelli Marando sono tornati in sintonia per me è una notizia angosciante. Eppure non è neanche questa la cosa che mi deprime maggiormente.
Che cosa allora?
Ancor più del fatto che sia libero, mi inquietano le motivazioni addotte. Suonano chiaramente come un’anticipazione di una sentenza di assoluzione, e temo non solo per Rosario. Si trattasse di un processo a Reggio Calabria penserei male. Siamo a Torino, voglio credere che semplicemente le tre giudici non sappiano che cos’è la ‘ndrangheta. Mi sembra che non colgano la caratura criminale di questi imputati, che li considerino solo dei bifolchi, dei cafoni, non delle menti più evolute come la guida di un’associazione di stampo mafioso impone. Del resto è un atteggiamento ricorrente nella magistratura giudicante di molti processi al nord. La mia era una sensazione maturata seguendo le udienze a distanza, e questo provvedimento sembra darmi ragione.
Perché è così severa nel suo giudizio?
In quella revoca si mettono in discussione le dichiarazioni mie, di Rocco Marando – il fratello pentito – e di Rocco Varacalli, il collaboratore che ha fatto scoppiare Minotauro. Il punto è questo: io, forse ingenuamente, ho sempre detto la verità. E la verità è che nessuno di loro, non Rosario e neanche mio marito, mi ha mai confessato “sono un affiliato”. Ma io ho assistito a molti rituali, ai “battesimi”, ai brindisi per i nuovi membri. Certo, non ho assistito a quelli dei Marando, anche perché loro erano già dentro l’organizzazione quando sono entrata nella famiglia. E sulla contestazione che non me ne abbiano mai fatto esplicito cenno, bisogna chiarire che nella ‘ndrangheta non funziona così, dell’appartenenza non si parla apertamente, figuriamoci alle donne poi, che sono bistrattate, sottomesse, umiliate, picchiate. Moltissime vanno avanti a psicofarmaci, per sopportare la morte di figli e mariti, o anche solo la prigionia in cui di fatto vivono. Io ero costretta a portare i pizzini fuori dal carcere per conto di mio marito, raggiungerlo nei suoi bunker sull’Aspromonte mentre era latitante. Perché ero la moglie di un mafioso. Se un giudice non capisce questo, non può capire la ‘ndrangheta.
Lei ha scelto di abbandonare quel mondo.
Sì, e l’ho pagato caro. Ma da quel momento nella giustizia ho sempre creduto, per questo quando mi hanno richiamata per i processi Stefanelli e Minotauro, dopo anni in cui mi ero rifatta una vita, benché misera come può essere quella di una fuggiasca sotto protezione, non ho avuto dubbi sull’accettare di testimoniare. E mi sono seduta su quella sedia da cui le giudici hanno visto uomini tremare di paura, imprenditori vessati sconfessare quello che avevano denunciato, addirittura persone rinnegare la propria identità e dire: “Non sono io, è un caso di omonimia”. Si è visto di tutto in quel processo. Purtroppo capita spesso che i giudici dei tribunali del nord sottovalutino la pericolosità e il livello di infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale ed economico, vanificando il lavoro dei magistrati inquirenti.
Che cosa pensa di fare ora?
Non lo so. Volevo essere dimenticata e dimenticare tutto. E’ stato impossibile. Quello che ho detto nelle aule di tribunale, e che già mi sembrava molto, è un centesimo di quello che ho vissuto. Capisco solo ora come una mancanza di conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione possa influenzare le decisioni giudiziarie. Forse è il momento di raccontare come vive una donna di ‘ndrangheta e pubblicare il libro sulla mia vita che da tempo alcune persone di fiducia custodiscono con il mandato di divulgarlo nel caso mi fosse successo qualcosa. Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola (donne uccise per aver parlato, ndr) non hanno fatto in tempo. Lo devo anche a loro.
di Manuela Mareso, direttore di Narcomafie