Cinquecento milioni di dollari al mese. Che in un anno, a questo ritmo, fanno 6 miliardi di biglietti verdi, ovvero il 10% del Pil d’anteguerra. A tanto ammonta il controvalore del sostegno economico offerto da Cina, Russia e Iran al regime siriano secondo quanto riferito dal vice primo ministro per gli affari economici di Damasco Kadri Jamil in un’intervista al Financial Times. “Non è poi così male avere alle tue spalle i russi, i cinesi e gli iraniani” ha spiegato Jamil evidenziando il ruolo chiave assunto dagli alleati nel garantire un aiuto decisivo a tutti i livelli. “Questi tre Paesi ci stanno aiutando politicamente, militarmente e anche economicamente” ha precisato.
Nel dettaglio Mosca fornisce via mare il petrolio sfruttando le zone costiere tuttora sotto il controllo del regime del presidente Bashar al-Assad. L’Iran garantisce oro nero e prodotti alimentari grazie anche ad un’apertura di credito illimitata. Ma a risultare realmente decisive sono le transazioni finanziarie che Damasco, ricorda il suo vice ministro, conduce regolarmente in yuan, rubli e rial, le valute nazionali dei tre alleati. “Ora abbiamo una linea diretta tra il pound siriano e queste tre valute – ha sottolineato – e siamo usciti dal circolo dagli euro e dei dollari”. Una mossa fondamentale, insomma, per raggiungere l’obiettivo primario: l’elusione dell’embargo internazionale.
Dallo scoppio della guerra civile, il regime siriano è sottoposto alle sanzioni economiche promosse da Usa, Ue e Lega Araba con il conseguente blocco dell’export petrolifero e delle transazioni bancarie nelle principali valute di riferimento. L’utilizzo delle monete amiche di Pechino, Mosca e Teheran, permetterebbe al regime e alle sue banche di bypassare lo stop imposto ai trasferimenti finanziari. Come se non bastasse, ha aggiunto ancora Jamil, Russia, Cina e Iran sarebbero ora pronte a orchestrare una controffensiva per sostenere il pound di Damasco, ormai svalutato in un rapporto di 200/1 con il dollaro contro il 45/1 che caratterizzava il tasso di cambio pre crisi. Un tracollo che secondo l’esponente governativo siriano sarebbe stato provocato da Usa, Arabia Saudita e Gran Bretagna responsabili (ma Jamil non ha fornito prove in merito) di una presunta maxi iniezione di valuta siriana in Giordania e Libano.
La svalutazione della moneta locale non rappresenta ovviamente l’unico effetto visibile dell’impatto del conflitto sul sistema economico. All’inizio dell’anno, il Syrian Centre for Policy Research aveva evidenziato le impietose cifre del conto economico sottolineando, in primo luogo, la clamorosa inversione di tendenza in atto a partire dal 2010. Per un intero decennio, spiegavano i ricercatori, l’economia siriana era cresciuta ad un ritmo medio del 4,45% all’anno. Nel 2011 il Pil si è contratto del 3,7% mentre l’anno scorso la ricchezza prodotta nel Paese si è ridotta del 18,8%. In totale, le perdite patite dall’economia di Damasco alla fine del 2012 ammontavano a 48,8 miliardi di dollari, oltre l’81% del controvalore del Pil misurato nel 2010.
A subire le conseguenze maggiori, ovviamente, sono stati gli strati più deboli della popolazione. Il tasso di disoccupazione all’inizio dell’anno sfiorava il 35% contro il 10,6 pre crisi, mentre il numero dei poveri era aumentato di 3,1 milioni di unità (su una popolazione di 21 milioni circa). Determinante, ovviamente, il peso delle sanzioni che avevano colpito in modo particolare il settore petrolifero con un impatto negativo, specificava ancora l’indagine, di quasi 4 miliardi di dollari. A più di due anni dall’inizio del conflitto, ricorda in questi giorni il Syrian Observatory for Human Rights, la conta dei morti avrebbe superato la soglia delle 100 mila unità. Oltre 36 mila sono le vittime tra i civili.