Dopo aver affrontato un viaggio che può durare mesi, i "shangfangzhe" si inginocchiano di fronte all'autorità centrale e la supplicano di ascoltarli e di riparare un torto subito chissà dove. Si tratta di un'usanza antichissima che ha subito un cambiamento sostanziale perché le rimostranze possono essere fatte online. Ma il sito è subito caduto per troppi accessi
Da secoli Pechino offre al popolo – anche quello che risiede nelle più lontane periferie dell’Impero – la possibilità di portare le proprie rimostranze e di testimoniare su ingiustizie subite di fronte alle autorità competenti della Capitale, spesso davanti allo stesso imperatore. Si chiamano “petizionisti” (“shangfangzhe”) quelli che, dopo aver affrontato un viaggio che può durare mesi, si inginocchiano di fronte all’autorità centrale e la supplicano di ascoltarli e di riparare un torto subito chissà dove. Ora non avranno più bisogno di affrontare tante traversie, ma potranno comodamente compilare un modulo online visto che il primo luglio lo State bureau of letters and calls ha inaugurato sul suo sito una sezione speciale in cui sarà possibile per gli utenti iscriversi e inviare le proprie richieste via Internet.
Ma per i petizionisti non è quasi mai un buongiorno: di solito rischiano botte e altre angherie, le stesse che nove volte su dieci li spingono a sobbarcarsi viaggi infiniti per trovare giustizia. Sono persone che arrivano a Pechino da ogni provincia del Paese per portare le proprie istanze: incidenti sul lavoro non pagati, soprusi da parte di funzionari corrotti, arbitrarie decisioni delle autorità. Spesso, appena scesi dal treno a Pechino vengono presi in consegna da solerti poliziotti finendo nelle “black jail” luoghi sospesi tra centro di reclusione e di smistamento, per essere poi rimandati nelle proprie case, nella periferia dell’Impero.
D’ora in poi sarà sul sito che – come recitano le parole dell’agenzia di stampa – “sarà possibile presentare i propri reclami su diritti ignorati e abuso di potere da parte di autorità, aziende o istituzioni pubbliche”. Sempre secondo il comunicato stampa si potranno anche commentare e consigliare le suddette istituzioni e i loro impiegati. Peccato che, seppure nessun organo di stampa cinese lo abbia riportato, nel suo giorno d’esordio il sito non abbia funzionato. O meglio, pare sia crollato per troppi accessi (pare 43 milioni, il che dà l’idea di quante persone in Cina si considerino in torto rispetto ad eventi che hanno subito).
Sui social network le critiche si sono scatenate, in molti erano già convinti che il sito non avrebbe retto la moltitudine di petizioni e c’è stato anche qualcuno che ha assunto che il crollo del sito il giorno della sua inaugurazione fosse un segno di non sincerità da parte del governo. Come se fosse una trovata 2.0 per il servizio d’ordine clandestino messo in moto dai governi locali che ha sempre impedito ai poveri di petizionisti di arrivare alla Capitale. Inoltre l’obbligo di registrazione attraverso il numero di carta di identità, l’obbligo di utilizzare solo il browser Internet explorer e la possibilità di allegare solo fio a due mega di materiale hanno scatenato importanti dubbi sull’efficacia del sistema.
Addirittura un editoriale del Quotidiano del popolo, l’organo ufficiale del Partito comunista cinese, ha posto la questione se quest’informatizzazione del sistema di petizioni non sia l’ennesimo modo dei governi locali per impedire ai contadini di arrivare a Pechino per lamentarsi del loro comportamento. Inoltre diversi avvocati e petizionisti intervistati dal quotidiano di Hong Kong “South China Morning Post” hanno detto: “Si tratta di argomenti troppo delicati per non essere trattati di persona”. E, soprattutto, la Repubblica popolare, più che di un nuovo sito ha bisogno di un nuovo sistema legale forte e credibile.
di Cecilia Attanasio Ghezzi