Insomma, scrivo queste righe quando è ancora troppo presto per trarre le conclusioni sul braccio di ferro in atto tra il presidente Morsi e i Fratelli Musulmani, da un lato, e l’esercito egiziano dall’altro. Alcune riflessioni però sulla situazione in Egitto si potrebbero già fare, cosi come si potrebbe già analizzare il modo superficiale in cui molti media occidentali descrivono tale situazione.
Ma andiamo con ordine e concentriamoci su quello che sta accadendo in Egitto. Contrariamente a quanto fa gran parte degli “esperti” occidentali sul Medio-Oriente, non mi sforzerò di dare uno schema (più o meno) rigido e arido delle azioni politiche messe in campo dai partiti, dall’esercito o da altre figure eminenti della politica egiziana. Intendiamoci, non perché tali azioni non siano rilevanti, ma semplicemente perché ciò che più mi preme evidenziare qui (e che viene troppo spesso ignorata nelle analisi mainstream) è un po’ di quella vita pulsante, fatta di carne e sangue, che negli ultimi due anni e mezzo non ha mai smesso di tenere accesa la fiamma della rivoluzione nelle strade, nelle piazze e nei luoghi di lavoro in Egitto. Questa prospettiva potrebbe far storcere il naso ai ‘raffinati’ analisti embedded, ovvero a tutti coloro che davano per spacciata, già mesi or sono, la rivoluzione egiziana e che, puntualmente, sono stati smentiti in diretta dagli eventi. Direi di lasciarli continuare a fare le loro figuracce in mondovisione, attenti come sono a non porgere lo sguardo in basso, laddove le più profonde ragioni degli eventi sociali e politici in corso si annidano.
I numeri in questi casi sono molto importanti e aiutano ad avere un quadro complessivo, al di là delle chiacchiere. E allora iniziamo col dire che soltanto nei primi cinque mesi del 2013 in Egitto ci sono state 5.544 manifestazioni, vale a dire 42 manifestazioni al giorno. Soltanto nel mese di marzo ci sono state 1.354 proteste, 1.462 ad aprile e 1.300 a maggio. Il numero eccezionale delle manifestazioni in questo periodo ha reso l’Egitto, secondo l’International Development Centre, il paese con il maggior numero di mobilitazioni sociali e politiche al mondo.
Secondo i dati riportati dall’ Egypt Independent, almeno due terzi di queste mobilitazioni riguardavano questioni economiche e sociali. Trattasi sostanzialmente di quelle questioni che, quasi del tutto, restano escluse sia dalle cronache sia dalle analisi mainstream. Queste ultime, infatti, puntano i fari soltanto sulla scena politica e sui suoi attori più illustri. E così, la realtà, la vita e le lotte quotidiane di milioni di individui si riducono ad un gioco a scacchi: i Fratelli Musulmani si alleano con questi, i militari sostengono quelli altri; i laici stanno di qua e gli islamisti di là. Scompaiono così dalla narrazione migliaia di manifestazioni, migliaia di scioperi, decine di nuovi sindacati indipendenti, movimenti femminili e studenteschi. Scompaiono cioè coloro che stanno facendo la storia d’Egitto dal 25 gennaio 2011 ad oggi. Coloro che hanno cacciato Mubarak e mandato in galera centinaia di suoi sodali, coloro che hanno protestato in milioni per cacciare l’esercito dal governo del paese (vi ricordate le manifestazioni oceaniche contro lo Scaf in tutto il paese nei mesi di novembre-dicembre 2011?) e sono mesi che lottano, ogni giorno, per cacciare via Morsi e i Fratelli Musulmani dal governo. Con buona pace di tutti coloro che vedono gli egiziani (e gli arabi in generale) come pecore capaci solo di farsi incantare dai fanatici religiosi.
L’intervento brutale dell’esercito, che cerca di dominare ora, in extremis, una situazione che inquieta parecchio diverse cancellerie occidentali e paesi limitrofi (visti i loro molteplici interessi economici e geopolitici nell’area), nulla toglie alla forza e all’eroismo delle proteste popolari in Egitto. Non mancheranno, però, anche questa volta, così come accaduto nel 2011, coloro che, con saccenza, punteranno il dito per dire: “Avete visto? Che avete protestato a fare? Le vostre proteste hanno aperto la strada ai militari. Siete contenti ora?”. Banalizzando molto direi che è un po’ come rimproverare una moglie umiliata, sfruttata e violentata per aver cercato di liberarsi, senza troppo successo, del marito violento e sfruttatore.
Le vicende di questi ultimi giorni, invece, ci dicono in particolare una cosa: pur avendo di fronte grandi e forti avversari, la rivoluzione egiziana avanza e non è affatto morta. E non bisogna neanche farsi ingannare dalle scene di giubilo a Tahrir, come altrove, dopo l’intervento dell’esercito contro il governo di Morsi. Le folle riunite in piazza non celebrano di certo il ritorno dei militari, ma la loro capacità, la loro forza, il loro potere di cambiare le cose, ancora e ancora.