Quarto appuntamento con la nuova rubrica del Fatto.it: Leonardo Coen, firma del giornalismo italiano, racconta il centesimo Tour de France tra cronaca, ricordi, retroscena e aneddoti.
Il centesimo Tour indugia narciso sulla battigia del Mediterraneo, prima la lunga trasferta in Corsica, poi Nizza e la sontuosa Promenade des Anglais, oggi Marsiglia e la spiaggia davanti all’Hyppodrome, c’è un’aria vacanziera che incombe sul gruppo e trasforma gli arrivi in feste popolari, forse per consolarsi della non estate 2013: e comunque, soffia su Marsiglia un Mistral carico di umidità che si adagia sugli ultimi chilometri della quinta tappa, il cielo è increspato di nuvole, non fa affatto caldo ed anche il plotone dei 195 corridori in gara alterna tirate impressionanti a pause tattiche per non sfessarsi prima dei Pirenei e stringere preziose alleanze.
La corsa, alla faccia delle celebrazioni e delle rimembranze storiche, sinora procede senza sussulti, come ingessata, lasciando ai volontari della bagarre un po’ d’avanspettacolo. Parte infatti subito dopo il via da Cagnes sur mer una fuga che non inquieta nessuno. Il gruppo lascia sfogare i sei temerari (tra cui il giapponese Yukiya Arashiro che corre con una maglietta col Sol Levante, tanto per far capire alla gente chi è il kamikaze che sta pedalando davanti a tutti) sino ad illuderli di farcela. L’arte della fuga vincente era il canovaccio preferito di Coppi e Bartali. Li vedevi partire, sapendo che ben difficilmente li avresti rivisti. Come sanno anche i pedalatori della domenica, se non vedi più il tuo avversario davanti a te, perdi due volte: l’animo, e la corsa.
Nelle fughe che durano ore e ore, ci si spartisce di solito il bottino disseminato lungo il tracciato quotidiano. Granelli di gloria e spiccioli vari per i proletari del gruppo, il gruzzolo della tappa è destinato alle gerarchie che contano, e che vincono. I picciotti delle fughe destinate al martirio sanno che il gruppo è come il caimano: non lo vedi ma sai che c’è; quando lo vedi, ti ha già inghiottito. Gli uomini in fuga condividono fatica e argent de poche. Si arraffa tutto quello che puoi: traguardi volanti, regali messi in palio dai paesi che attraversi, il premio della combattività e quelli della montagna di terza e quarta categoria, gli incentivi dello sponsor che ti paga a minuti, quelli in cui appari in tv…in questa logica del baratto a pedivella, al nippocorridore è stato concesso il privilegio di valicare per primo la Cote de Roquebrusanne al chilometro 164…pur sempre un colle del Tour de France, col suo punticino simbolico, che pone Arashiro in undicesima posizione…
Il Tour non è corsa per inutili speranze. Soprattutto quando la tappa è “per velocisti”. Gli sprinter sono impietosi. Ma queste sono tappe per sprinter senza cuore, sollecitano le loro squadre a spremersi come limoni per riacchiappare chi annaspa davanti: un teorema in voga tra i suiveurs stabilisce che quando il gruppo rincorre è capace di guadagnare un minuto ogni dieci chilometri. Sia come sia, il plotone fa secchi quei poveracci mandati in avanscoperta per quasi cinque ore. La volata viene dominata da Mark Cavendish che ormai si impegna solo negli arrivi importanti: è la sua vittoria numero 24 al Tour, il doppio di quelle ottenute da Mario Cipollini.
E tuttavia, diciamo la verità: sinora il Tour numero 100 è come una musica in sordina (o in sardina, siamo nella patria della bouillabaisse). E’ successo ben poco, “il copione è già scritto”, osserva sconsolato Damiano Cunego che in classifica è il migliore degli italiani – ventitreesimo ad appena 26 secondi dal leader Simon Gerrans – “comandano americani, australiani ed inglesi, le loro squadre sono ricche e potenti, hanno i mezzi per piegare il ciclismo ai loro interessi e per gestire le tappe. Sono loro che decidono di alzare il ritmo, di lasciare andare in fuga chi vogliono, sono loro che dettano il menu di giornata”.
E’ la globalizzazione del ciclismo, bellezza, verrebbe da dire scimmiottando Humphrey Bogart: non l’avevi capito, caro Damiano, che o è così o si chiude bottega. Nel frattempo, le invasioni barbariche del ciclismo hanno regalato clamorose abbuffate americane (molto, molto dopate); senza dimenticare i britannici e i loro sudditi dell’Impero. Un tempo al Tour si parlava francese, la lingua del ciclismo era quella di Brassens e della Piaf, con qualche innesto di Natalino Otto e Modugno. Oggi domina l’inglese. E non siamo che all’inizio: stanno per entrare nel grande gioco della pedivella su strada i corridori asiatici. I giapponesi e i coreani, per esempio, hanno già seminato abbondantemente nella pista. Il business della bicicletta ha prospettive colossali, e il Tour ne è la vetrina eccellente. C’è persino attesa per gli africani: a quando la prima maglia gialla del Continente Nero? Beh, l’abbiamo sfiorata a Marsiglia. Il sudafricano Daryl Impey, secondo in classifica ma con lo stesso tempo del primo, avrebbe potuto strapparla al compagno di squadra Gerrans. Bastava piazzarsi nove posti davanti a lui. Per sponsor e organizzatori, un gran colpo mediatico. Gerrans non ha abbozzato, o forse è stato Impey a non farcela: ha preceduto il compagno di un paio di posizioni. Peccato. Occasione perduta. Anzi, sprecata.
“E’ tutto un ciclismo che non riconosco più – commenta Cunego – il gruppo ragiona con logiche diverse da quelle che adottavamo noi…”. Non basta la forza delle gambe? “Non basta, se nel gruppo hai contro squadroni che spadroneggiano. E che schierano gente mai vista prima. Come fai ad orientarti, a capire quel che potrebbe succedere, se chi hai al fianco è un perfetto sconosciuto? Per anni ho avuto come punto di riferimento Basso. E Rebellin, che sapeva decifrare la corsa in modo eccezionale. Senza loro mi sento un poco disorientato. Capisco che il ciclismo si evolve, è un fenomeno naturale, ma è ancora difficile capire in quale direzione…”. Quella delle multinazionali del pedale segue la logica universale del quattrino: a quando un Tour del Profitto?
Letture consigliate – Olivier Dazat, “Seigneurs et forçats du vélo”, Calmann-Lévy, 1993.
Pierre Mac Orlan, “Le Sport forme moderne de la fête”, Prima Linea, 1996.