Nell'aula bunker del carcere Ucciardone erano assenti anche oggi tutti i rappresentanti delle istituzioni accusati di essersi seduti allo stesso tavolo di Cosa Nostra. Il procuratore sulle rivelazioni del boss: "Non possiamo enfatizzarle perché sarebbe assurdo pensare che il boss corleonese si sia deciso a collaborare, ma sono dichiarazioni che hanno un forte interesse processuale”
Ovunque ma non a Palermo. Con questo leit motiv le difese del generale Mario Mori e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri avevano chiesto il trasferimento del processo sulla Trattativa tra pezzi delle Istituzioni e Cosa Nostra. E invece, per la seconda volta dopo il primo tentativo davanti al gup Piergiorgio Morosini, un giudice terzo ha risposto con il pollice verso: il processo sul patto Stato – mafia rimane nel capoluogo siciliano.
All’aula bunker del carcere Ucciardone, la famosa astronave verde del maxi processo, erano assenti anche oggi tutti i rappresentanti delle istituzioni accusati di essersi seduti allo stesso tavolo di Cosa Nostra nel biennio 1992 – 1994. Non hanno dunque assistito alla lettura del dispositivo, lunga più di 40 minuti, con cui la corte presieduta da Alfredo Montalto ha rigettato tutte le eccezioni degli avvocati difensori. L’ex senatore Nicola Mancino aveva chiesto di essere processato dal tribunale dei ministri. “Il reato per cui è imputato, ovvero la falsa testimonianza, è un reato ministeriale” aveva spiegato l’avvocato Massimo Krogh. Mancino però si sarebbe macchiato di falsa testimonianza deponendo al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano il 27 febbraio del 2012, quando non era più nemmeno vice presidente del Csm. I giudici hanno quindi dato ragione alle opposizioni della procura di Palermo. Nell’istanza di rigetto viene implicitamente confermata anche l’importanza del delitto di Salvo Lima nel puzzle della Trattativa. Gli avvocati difensori avevano sottolineato come lo stralcio della posizione di Provenzano (accusato dell’omicidio del politico democristiano e attualmente in pessime condizioni di salute) facesse venire meno le condizioni per celebrare il processo a Palermo. La corte però ha rigettato anche questa eccezione: la chioma bianca dell’europarlamentare dc, rivolta nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è il primo atto di guerra di Cosa Nostra allo Stato.
Nella scorsa udienza era emerso che Totò Riina aveva confermato l’esistenza della trattativa. “Abbiamo debitamente registrato le dichiarazioni di Riina e le abbiamo versate nelle opportune sedi processuali, la valutazione verrà fatta in dibattimento, non possiamo enfatizzarle perché sarebbe assurdo pensare che il boss corleonese si sia deciso a collaborare, ma sono dichiarazioni che hanno un forte interesse processuale” ha detto il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo, commentando le ultime dichiarazioni del capomafia a margine della presentazione del patto per la legalità tra gli ordini professionali e la Camera di commercio di Palermo. “Non sono al corrente di specifiche iniziative in programma per il 19 luglio, data di commemorazione della strage di via D’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, ma non trovo utile sovrapporre il momento della commemorazione – che è un fatto emotivo che ci coinvolge tutti – a un processo in corso di celebrazione. Il processo è un’attività giudiziaria che deve svolgersi con la necessaria serenità e nel quale, nello specifico, sono oggetto di accertamento i fatti che si svolsero tra il ’92 e il ’93”.
E mentre il processo va in vacanza per la pausa estiva, non si arresta il polemico dibattito esterno che ha caratterizzato gli ultimi mesi di indagine. Appena ieri pomeriggio a Palermo il giurista Giovanni Fiandaca, autore di un asprissimo saggio apparso sul Foglio qualche settimana fa, è tornato a dibattere sulla Trattativa. Il professore palermitano, invitato dall’Università di Palermo ad un incontro pubblico nella sede del Rettorato, ha smontato pezzo per pezzo l’inchiesta sul patto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra, negando la stessa ragion d’essere del processo. In soldoni per Fiandaca la Trattativa non è un reato, come invece ipotizzato dai pm che hanno contestato a quasi tutti gli imputati il reato disciplinato dall’articolo 338 del codice penale, ovvero la violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Alle tesi di Fiandaca ha replicato oggi, al margine dell’udienza, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. “Da parte di alcuni studiosi e di alcuni commentatori – ha detto il pm – occorrerebbe maggior umiltà. Credo che Fiandaca basi le sue opinioni soffermandosi soltanto sulla frettolosa memoria depositata all’inizio dell’udienza preliminare, senza aver letto tutti gli atti dell’inchiesta”.
@pipitone87