A me è piaciuta. Mi ha incuriosito e scatenato una sorta di fame di sapere e di procedere nei grandi spazi. Non sentivo più la stanchezza, cosa che mi accade spesso dopo ore in piedi in un museo. Sto parlando della 55.a edizione della Biennale d’arte di Venezia. Mi sono segnata man mano che procedevo dal Padiglione centrale verso Punta della dogana passando per l’Arsenale, le parole che mi venivano incontro dalle immagini e dai suoni. Sono ‘follia’, ‘ossessione’, ‘integrità’, ‘domestico’, ‘visionario’, ‘immaginifico’ ‘coraggio’ e ‘ironia’.
Il tentativo di Massimiliano Gioni, giovane curatore di questa edizione è chiaro fin da subito: ridare un valore all’immagine, intesa come espressione di un’ostinazione e di una devozione dell’artista verso se stesso, “in una parola, integrità”, immagine come tentativo furioso di raccontare la collisione tra il proprio mondo interiore e quello esterno, davanti all’impossibilità a volte di esprimere ciò che è invisibile: sogni, paure, intuizioni. Ho sentito lo slancio poetico degli artisti di questa biennale di scendere nell’abisso del proprio essere, acchiappare le immagini (astratte e non) e cercare di tirarle su, di tradurle in segno. Per questo il cuore pulsante, punto di partenza nel Padiglione centrale ed elemento che dà coesione a tutta l’esposizione, è il Liber Novus di Jung, il grande volume rosso in cui lo psichiatra svizzero dipingeva le immagini interiori, le proprie visioni, i sogni. Un trionfo di colori e di forme, per me un subbuglio di emozioni, come i mari in tempesta della belga Thierry De Cordier, neri, minacciosi, inquietanti, che sono nella sala accanto. Ci sono le lavagne su cui Rudolf Steiner tentava di spiegare durante le sue conferenze la propria idea di mondo. Le pietre strepitose collezionate da Roger Caillois.
Non manca l’ironia, così di moda nell’arte di oggi, ma è un’ironia intelligente, che non vuole solo scandalizzare: piuttosto ci vuole complici. Un esempio: le 150 bacheche in cui gli artisti svizzeri Fischli e Weiss hanno racchiuso piccole sculture in argilla cruda. Tanto per dare un’idea: in una c’è il dottor Albert Hofmann che torna a casa in bici dopo aver preso la sua prima dose di Lsd; in un’altra i genitori di Einstein a letto subito dopo aver concepito Albert. Il divertimento con cui hanno lavorato i due artisti arriva fino a noi, che veniamo coinvolti nel clima giocoso grazie alle didascalie. Ma attenzione, in questa biennale l’ironia si sposa sempre con il talento manuale, con l’abilità straordinaria di comporre, modellare, disegnare, utilizzando i più diversi materiali. L’artista diventa ricamatore, architetto, plasmatore, costumista, assemblatore.
Esemplari, in questa direzione, i 387 edifici in miniatura che un impiegato delle assicurazioni austriache, Peter Fritz, creò ossessivamente con cartone, scatole di fiammiferi, avanzi di carta da parati intorno agli anni Cinquanta. Un inventario di stili architettonici che comprende minuscole banche, chiese, cascine, case monofamiliari. Finita l’opera, Fritz ripose ogni edificio in un sacco della spazzatura e se ne dimenticò. Nel 1993 due artisti tedeschi trovarono i sacchi neri da un rigattiere e i modelli furono ricostruiti. Sono perfetti, accurati.
Coraggiosi i disegni a punta finissima di Christiana Soulou, artista greca cinquantenne. Pieni di poesia i 365 piccoli fogli di taccuino del colombiano Suarez Londono, uno più intenso dell’altro, piccoli appunti, magistrali annotazioni disegnate. Il volto di Kafka, di cui l’altro ieri ricorrevano i centotrenta anni dalla nascita, (celebrati da Google con un doodle), compare improvviso, con i suoi occhi profondi e stralunati.
Il titolo di questa edizione della Biennale arte, Il Palazzo Enciclopedico, è preso dall’opera mai realizzata di un artista autodidatta italo-americano, scappato durante il fascismo dal suo Abruzzo per andare in America, Marino Auriti, che nel 1955 progettò un immenso palazzo enciclopedico, un museo immaginario che avrebbe dovuto custodire tutte le conquista dell’uomo. Doveva sorgere nel cuore di Washington, essere il più alto del suo tempo e occupare circa 16 isolati; costo stimato di allora: più di due miliardi di dollari. Il modellino fatto da Auriti, in legno, plastica e ottone, rimasto abbandonato per anni nel suo garage, lo si può vedere ora restaurato all’Arsenale (delle altre opere lì custodite parlerò successivamente).
Alla base di questo sogno utopico mai realizzato di Auriti stava una grande idea di pace e collaborazione tra le nazioni del mondo.
Credo che il curatore Gioni abbia voluto con questa Biennale far vedere che tanta arte che oggi si autocelebra come originale e di rottura, abbia in realtà approfittato del sentiero aperto da questi padri, assai più integri, innovatori e talentuosi. I veri figli di questi padri, numerosi in questa Biennale, operano in silenzio, e compiono giorno dopo giorno la loro difficile ricerca, rivoluzionando l’arte in profondità, guardando, invece che al mercato, prima di tutto in loro stessi, con fatica, senza tanta grancassa.