“Isolamento, freddo, caldo, fame, tabacco, latrina”. E’ il carcere. E chi non lo conosce, chi non ci è mai stato, chi non ha imparato a difendersi, non può aspirare a diventare un vory v zakone. Perché ‘i ladri in legge’ l’apprendistato lo devono fare in galera. Da sempre. Fin dagli anni Trenta quando, unendosi a bande di dissidenti politici, vengono incarcerati e sbattuti dentro i gulag. La loro confraternita nasce nei campi di lavoro. E nasce da un caposaldo di rivolta al sistema sovietico: rifiutarsi di lavorare e vivere esclusivamente delle proprie attività illegali. Un codice, dunque. Che deve essere rispettato perché chi non lo segue può anche pagare con la morte. Le punizioni sono all’ordine del giorno. Ma non sono improvvisate. E così il boss del clan Kutaisi, ordinando un pestaggio ai suoi luogotenenti, si raccomanda che sia fatto “con tecnica”, magari “colpendolo e facendolo svenire per poi metterlo in macchina”. L’azione poi deve essere eseguita da “ragazzi forti, in forma”. Quindi il padrino chiede che alla persona venga asportato il naso o l’orecchio. Dice “Koba mi senti? O il naso o l’orecchio!”.
Come tutte le associazioni mafiose, anche quella dei ‘ladri in legge’ ha carattere di segretezza. Il rispetto delle regole, dunque, è sacro. Un vory deve tagliare di netto i rapporti con la sua famiglia, non sposarsi né avere figli, aiutare gli altri membri dell’organizzazione, depistare le indagini, mantenere il silenzio. Ogni sua azione deve essere diretta all’accrescimento della confraternita. Ad esempio finanziando con le proprie attività (corruzione, riciclaggio, droga, armi, estorsioni, prostituzione) l’obshak (cassa comune), parte della quale va al sostentamento degli affiliati detenuti e delle loro famiglie. Risultato: le cosche dell’ex Unione Sovietica (oggi stimate in novemila bande con almeno centomila affiliati) contano su tre milioni di fiancheggiatori. In patria. Ma non solo. Anche in Italia e nei luoghi che non ti aspetti. Nel settembre 2012, infatti, una cameriera dell’hotel romano Principe di Torlonia avverte il boss del clan Kutaisi di un controllo della polizia. Gli agenti, a suo dire, stanno anche intercettando le conversazioni degli affiliati. Dice: “I cani (Forze dell’ordine, ndr) avevano chiesto di lui e lo stavano ascoltando, anche in quel momento”. Risultato: la shodka (il consiglio criminale) organizzata presso la lussuosa location del Borgo della Merluzza a Roma per dirimere i contrasti tra i due clan (Kutaisi e Tbilisi/Rustavi) e che da giorni sta richiamando vory v zakone da tutto il mondo viene cancellata.
Il carcere, dunque, dà potere e consenso sociale. E sul carcere i vory v zakone operano uno strettissimo controllo. Qui l’organizzazione conta su veri e propri referenti incaricati di dirimere le controversie. “I ladri chiedono del perché!”, dice il boss del clan Kutaisi a un tale Igor che chiama dal carcere di Novosibirsk nel distretto federale siberiano. Al telefono il controllore comunica che gli è giunta richiesta di “spezzare” (uccidere) un detenuto. Il boss non è d’accordo e ne chiede conto. Dice al controllore: “Non so chi ti ha messo a fare il sorvegliante, e prima di chiedertelo ti voglio dire che noi abbiamo bisogno delle persone che sanno usare la testa e non solo eseguire gli ordini come i soldati”. E ancora: “Se domani mi chiamassero per chiedermi di spezzare te?”. I collegamenti tra la galera e i vertici dell’associazione sono tenuti anche grazie ai progoni (lettere) che vengono fatte girare nelle celle.
Tutte iniziano sempre così: “Tanti saluti ai carcerati. Pace e benessere a voi, al nostro movimento dei ladri tutto il bene”. Portano le comunicazioni sulle nuove cariche date e sulle decisioni prese durante il consiglio criminale (shodka). Si legge in una di queste missive riportata nelle carte dell’indagine barese: “Il destino di un ladro può essere deciso unicamente in shodka e unicamente in sua presenza. Tutta la gente che vive la nostra vita comprende bene di cosa si parla (…) . Noi non abbiamo bisogno né di intermediari né di avvocati. Nessuno deve intromettersi negli affari nostri tranne noi stessi”. La mafija dei vory, dunque, si alimenta di un arcaico simbolismo ma anche di una straordinaria modernità finanziaria giocata tutta sulla trasnazionalità. E così da un lato oggi la cassa comune ha un valore talmente alto che non può essere nemmeno stimato. Dall’altro il linguaggio dei simboli disegnati sulla pelle ha, ancora adesso, una straordinaria importanza.
Secondo le stime fatte dal criminologo russo Arkady G. Bronnikov, tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, su 35 milioni di detenuti nelle carceri dell’ex Unione sovietica l’85% era tatuato. Sul proprio corpo, ogni vory ha scritto la sua personale storia criminale. Il tatuaggio rivela ruolo, categoria e grado di appartenenza. Le stelle sul petto le ha solo un “ladro in legge”. Le stesse sulle ginocchia indicano la volontà di non piegarsi mai davanti allo Stato. Chiese e castelli sono molto comuni. Il numero di cupole o torri indicano gli anni di galera. Spesso sono accompagnate dalla scritta: “La Chiesa è la casa del signore”. Tradotto nel codice dei vory: “La prigione è la casa del ladro”. Un’altra frase ricorrente sulla pelle degli affiliati è questa: “Non mi importa delle leggi sovietiche, le sole regole che seguo sono quelle che mi faccio da solo. Molti di quelli che stanno qui non hanno un destino, ma io non sono come loro”. E poi c’è il linguaggio della parola: la fenya. Composto da circa 10mila espressioni. Serve per mantenere riservate le conversazioni. Ogni categoria criminale dell’organizzazione ha una sua semantica. E così c’è l’alfabeto dei borsaioli, truffatori, malversatori, ricettatori di antiquariato, narcotrafficanti, taglieggiatori.
da Il Fatto Quotidiano del 1 luglio 2013