Sesto appuntamento con la nuova rubrica del Fatto.it: Leonardo Coen, firma del giornalismo italiano, racconta il centesimo Tour de France tra cronaca, ricordi, retroscena e aneddoti.
Il Tour vero del 2013 è cominciato alle 16 e 08, quando in cima al Col de Pailhères, a quota 2001 metri (il punto più alto della corsa di quest’anno) è passato per primo il giovane colombiano Nairo Quintana, una grande promessa, secondo i suiveurs, capace di rinverdire la gloria degli scalatori del suo Paese (uno di loro, Victor Hugo Peña, nel 2003 fu il primo sudamericano a conquistare la maglia gialla). Quintana ha un minuto di vantaggio sul gruppetto dei migliori. Non è molto. Dietro, la strada aveva già assottigliato e sfoltito il plotone. Gli uomini della Sky, lo squadrone che detta legge nel mondo del ProTour, la Serie A internazionale delle due ruote, scandivano il ritmo dell’inseguimento, senza sbiellare. In quattro, davanti a tutti, come se si trattasse di una cronometro a squadre, e non di una tappa in salita. Macinavano regolarmente un passo che a poco a poco intossicava i rivali del loro capitano Christopher Froome. Una strage. Stupiva la resistenza stoica della maglia gialla Daryl Impey, che lentamente scivolava nelle retrovie ma con grande dignità: “Ho cercato di rappresentare e onorare la maglia gialla”, dirà subito dopo l’arrivo. Quintana, a quel punto aveva venti chilometri di discesa per rifiatare e poi un’altra salita dove rilanciare l’attacco, nove chilometri tosti sino a Ax 3 Domaines, una stazione sciistica dei Pirenei, dove era posto il traguardo dell’ottava tappa.
Le montagne sono il setaccio del gruppo. La salita è il set più autentico del ciclismo, dove sofferenza e impresa intrecciano le loro sceneggiature. Lungo i tornanti si creano leggende e si consumano drammi. Nel ciclismo contemporaneo, tuttavia, i distacchi sono molto più limitati rispetto al passato. Ci fu un Tour che Coppi era in ritardo omerico di quasi mezz’ora, poi si riprese e li restituì con gli interessi. Beh, oggi si è visto qualcosa di antico, e di molto bello: così tanto che ci arrischiamo a dire che il Tour 2013, così carico di attese e significati perché è il centesimo dal 1903, è virtualmente finito. C’è un padrone in corsa che non ha avversari alla sua altezza. Negli ultimi sei chilometri Christopher Froome ha frantumato la classifica e devastato il morale degli avversari con strabiliante facilità. Lo ha fatto con l’apporto fondamentale della squadra, in particolare del formidabile tasmaniano Richie Porte che infatti si è piazzato secondo. Quanto al pivello Quintana, ha pagato pegno (ma ha conquistato la maglia bianca di miglior giovane). Era stato mandato in fuga dal capitano Alejandro Valverde per cercare di scompigliare i piani della Sky. Ha solo messo in evidenza la strepitosa reazione della formazione inglese. Valverde e Alberto Contador hanno accusato il colpo, e preso un minuto e 45 secondi di distacco. Sulla carta, recuperabili. Ma la strada ha rivelato che tra gli spagnoli e Froome c’è un abisso di qualità, di condizione e di determinazione. Speriamo che sia tutto oro quel che abbiamo visto luccicare. Tanto per capirci, il bus della Radioshack, la squadra di Andy Schleck, è stato perquisito prima del via dai doganieri francesi…
La maglia gialla resta africana: Froome è nato a Nairobi 28 anni fa, vive in Sudafrica. Corre con licenza britannica, come britannici erano i suoi nonni. Londra lo considera suo, e ancor di più suo perché destinato a dominare il mondo delle corse a tappe. Alla reputazione dei tecnici e dei colleghi in bicicletta, non corrisponde ancora la popolarità dei tifosi: però quella la sia guadagna in fretta coi risultati. Froome, infatti, non vanta per il momento il carisma dei fuoriclasse che l’hanno preceduto sul palcoscenico secolare del Tour. Questione di tempo, e di tempi. In fondo, l’anno scorso era l’ombra e lo scudiero di Bradley Wiggins, che vinse il Tour grazie all’aiuto sostanziale di Froome. Ma già Christopher scalpitava, come certi purosangue che hanno l’istinto della vittoria ma non hanno il permesso di acchiapparla. Le gerarchie della Sky erano state delineate: o si adeguava o cambiava squadra. Il forfait di Wiggins – ufficialmente per cattive condizioni fisiche – ha sgombrato il campo da eventuali polemiche (nel 2012 erano evidenti).
Non è la prima volta che screzi e dissidi tra corridori della stessa squadra si trasformano in accese rivalità. Pensiamo al Giro d’Italia del 1940, quando il più famoso Gino Bartali, capitano della Legnano, fu costretto dalle circostanze (una caduta nelle prime tappe) a vedere il ventenne Fausto Coppi vincere, con un’incredibile fuga nella tappa da Firenze a Modena la corsa rosa. Froome non è Coppi, tanto meno Bartali. Quando scatta, lo fa con brutto stile. E’ filiforme, dicono sia dimagrito. Esprime una potenza micidiale: negli ultimi chilometri di una tappa assai veloce, nonostante le salite, ha mantenuto quasi cento colpi di pedale al minuto. La sua bici adotta una moltiplica ovale, e forse questo è un dettaglio tecnico da non trascurare. Fatto sta che i corridori Sky mantenevano con disarmante superiorità una velocità notevole pure su pendenze importanti. A Froome hanno chiesto qual è la cosa più importante che si deve fare nel ciclismo. Lui non ha avuto esitazione nel rispondere: “Vincere il Tour”. La referenza. La storia del Tour è intrisa di eroismi. Di intrighi. Di controversie. Coppi, Anquetil, Merckx, Hinault e Indurain sono diventati leggendari, ma il Tour ha avuto anche i suoi nefasti anni Armstrong, e “l’affare Festina” e le rivelazioni di un dopaggio di massa… Passano gli anni, e noi che amiamo il ciclismo non vediamo l’ora di celebrarlo e raccontarne le storie pulite e i protagonisti delle fughe, degli attacchi fulminanti, degli sprint mozzafiato. Solo ieri, abbiamo osannato il successo in volata del fenomenale Peter Sagan, martoriato da una sfilza di secondi posti, cioè di brucianti sconfitte. I francesi lo hanno ribattezzato, “bonjour vitesse”, giocando sul titolo di un celebre romanzo dell’omonima Françoise Sagan. Ora è cominciata l’era Froome.
Domani, nuova tappa di montagna, cinque grandi e storici “cols”, il traguardo non in salita e la giusta attesa di qualche rivincita. Agli appassionati piacciono anche i grandi sconfitti, come lo fu Raymond Poulidor, diciassette Tour e mai uno in saccoccia. Però era il più amato. Perdeva, tentando di vincere.
Letture consigliate – E’ appena uscito, scritto da Tyler Hamilton e Daniel Coyle, “La corsa segreta”, la verità dietro i successi, il ciclismo tra doping, connivenze e coperture. Edizioni Limina, 2013. E’ il libro in cui l’ex medaglia d’oro olimpica Hamilton confessa come divenne compagno di squadra ma anche vittima e poi rivale di Lance Armstrong, e racconta il sistema davvero diabolico – con connivenze, coperture, business – che ha affossato la credibilità di uno sport magnifico e avvelenato. Tutto quello che non si dovrebbe fare per vestire una maglia, che sia essa rosa, gialla o iridata. L’etica feroce del vincere ad ogni costo.