La crisi finanziaria argentina del 2001 ha colpito l’immaginazione e, purtroppo, anche i portafogli degli italiani. Le dimensioni della crisi e i legami culturali fra i due Paesi hanno assicurato a questo episodio un’ampia copertura sui nostri mezzi di informazione. Così, oggi, nel dibattito italiano si moltiplicano i riferimenti all’esperienza argentina. Un’insistenza spiegata anche da un’ovvia analogia: l’aggancio del peso al dollaro, sperimentato dall’Argentina negli anni 90, ricorda molto quello della lira al marco, realizzato entrando nell’euro. Analogia utilizzata per dimostrare tutto e il contrario di tutto. Da una parte abbiamo quelli che, come l’attuale presidente del Consiglio, ripetono che l’euro ci ha difeso da una crisi “di tipo argentino”. Dall’altra quelli che, come Nouriel Roubini, fin dal 2006 avevano chiarito che l’entrata nell’euro esponeva l’Italia agli stessi rischi corsi dall’Argentina agganciandosi al dollaro: perdita di competitività, accumulo di debito estero, rischio di default.
Quelli che: “Ci ha salvato l’euro”
Quest’ultimo punto di vista è confortato dai dati. Dopo lo sganciamento dal dollaro, superato un anno di crisi, l’Argentina è ripartita crescendo a una media di oltre l’8 per cento dal 2003 al 2007 e riducendo di oltre 10 punti il tasso di disoccupazione. D’altra parte, la notizia che oggi l’Argentina sarebbe sull’orlo di una nuova crisi finanziaria è accolta con cinica soddisfazione da quelli che “l’euro ci ha salvato”, i quali concludono, in modo sbrigativo, che sganciarsi da una moneta troppo forte non risolve i problemi, e quindi l’Italia deve restare nell’euro. Il fatto che l’Argentina oggi sia in crisi non dimostra che dodici anni or sono dovesse restare legata al dollaro. Ma c’è di più: i dati mostrano che i problemi odierni dell’Argentina sono ancora una volta causati dall’adozione di un tasso di cambio eccessivamente forte.
Lo sostengono Roberto Frenkel e Martin Rapetti dell’Università di Buenos Aires, notando come la politica economica del paese abbia seguito due fasi ben distinte. Dopo la crisi il costo del dollaro in termini di pesos era aumentato del 200 per cento (da uno a tre pesos per dollaro). Questo aumento non si era riflesso sui prezzi interni se non in minima parte (l’inflazione annua arrivò al 25% nel 2002 per poi tornare a una cifra nel 2004). Una dinamica gestita dal governo argentino con una politica valutaria accomodante, che compensava l’aumento relativamente moderato dei prezzi interni con un deprezzamento del peso, mantenendo costante il rapporto fra i prezzi argentini e quelli dei principali concorrenti (cioè il tasso di cambio reale). Il governo quindi promuoveva la crescita favorendo la domanda estera con l’adozione un tasso di cambio reale stabile e competitivo. Nel 2007 la situazione è cambiata drasticamente. Dopo cinque anni di crescita all’8%, cominciavano a emergere fisiologiche tensioni sui prezzi interni, ma alle prime avvisaglie di crisi internazionale, il governo ha risposto premendo sull’acceleratore della spesa pubblica, cercando di mantenere il tasso di crescita ai livelli precedenti.
Un tentativo che rispondeva a una logica di tipo populistico. Il risultato è stato un’esplosione dell’inflazione, salita al 20%-25%: dato occultato dalle statistiche ufficiali, che il governo ha tenuto sotto controllo rimuovendo, con una decisione molto criticata, i vertici dell’istituto di statistica. Per contenere l’inflazione il governo ha fatto leva sul tasso di cambio, che ha cessato di essere accomodante. Così, nel biennio 2010-2011 si stima che i prezzi siano cresciuti del 54%, mentre il cambio ha ceduto solo del 12%. La competitività dei prodotti argentini è andata a picco, e il saldo delle partite correnti è tornato negativo per la prima volta dal 2001, e per lo stesso motivo: un tasso di cambio troppo forte rispetto ai fondamentali del paese. Ciò suggerisce che il cambio del peso prima o poi dovrà cedere.
La corsa verso il dollaro
Come sempre accade in questi casi, il governo si arrampica sugli specchi per rinviare una misura potenzialmente costosa in termini elettorali. Gli operatori però sono consapevoli della sua necessità e quindi le tensioni sul mercato dei cambi aumentano. Il governo cerca di contrastare con misure restrittive la corsa degli argentini verso il dollaro, visto come bene rifugio, con l’unico risultato di favorire lo sviluppo del mercato nero, dove il dollaro costa circa il 70% in più rispetto alla quotazione ufficiale. Le riserve ufficiali continuano a prosciugarsi, e ad oggi coprono meno di sette mesi di importazioni. L’inevitabile crisi valutaria che si profila all’orizzonte sarà stata causata da due errori di gestione macroeconomica: l’uso improprio della spesa pubblica, e l’uso del tasso di cambio forte come ancora dei prezzi interni. Errori simili a quelli che circa vent’anni or sono causarono nel nostro paese la crisi del 1992. L’esperienza argentina ci dimostra così ancora una volta come il “cambio forte” schiacci, invece di proteggerlo, il Paese che lo adotta. La lezione da trarre è che lo sganciamento da un cambio insostenibile deve essere gestito con intelligenza, evitando di ricadere negli errori del passato.
da Il Fatto Quotidiano del 3 luglio 2013