“Confesso che, quando considero lo stato del Sud, scopro per la razza bianca che lo abita due sole maniere di agire: o liberare i neri e fonderli con se stessa, o restare isolata da essi e tenerli più tempo possibile nella schiavitù. I mezzi termini mi sembrano portare prima o poi alla più orribile delle guerre civili […]”. Così Tocqueville, nella famosa opera su La democrazia in America. Parole profetiche, le sue. Anticipano infatti di oltre un ventennio la Guerra di secessione che vide contrapporsi abolizionisti e schiavisti: da un lato l’Unione del Nord, le ‘giacche blu’ capeggiate dal generale Ulysses Grant ma anzitutto da Abraham Lincoln, dall’altro gli Stati Confederati del Sud, i Dixies presieduti da Jefferson Davis.


Proprio in questi mesi il Metropolitan di New York dedica un’importante retrospettiva al massiccio impiego della fotografia durante la Guerra civile del 1861-’65. È iniziativa tutt’altro che antiquaria, che aggira anzi con intelligenza ogni semplice intento ricostruttivo. A tema non è tanto una più accurata rappresentazione del conflitto, ma il rapporto stesso tra immagine ed esperienza storica, come sia possibile, dunque, costruire in termini mediali la percezione collettiva di un evento e così la sua impronta memoriale.

Quella di secessione fu infatti guerra a tutti gli effetti moderna: oltre all’elevato numero di vittime (circa 700.000, secondo stime accreditate) e al dispiego di avanzatissime tecnologie militari (che anticiparono palesemente quelle poi impiegate nella Grande Guerra), si trattò altresì del primo conflitto ad essere documentato in presa diretta. È il primo, cioè, di cui si posseggano immagini autentiche le quali, catturate dall’iride dei protagonisti, non attenuano ma riportano con fedeltà l’efferatezza del campo di battaglia.

Moltissime le firme di quei pioneristici reportage. A cominciare da Alexander Gardner e Mathew Brady, eminenze grigie della fotografia dell’epoca, i cui lavori già pronosticano il grande Robert Capa. O Henry P. Moore il quale, con tocco faulkneriano, racconta la vita degli schiavi nel profondo Sud. C’è spazio inoltre per una composizione in posa di John Reekie A Burial Party (Party funebre) dall’ambiente surrealmente macabro, tra Ensor e Otto Dix: quattro braccianti afroamericani apprestano le fosse, mentre un quinto, in primo piano, regge una barella ricoperta da teschi e cadaveri scarnificati.

Ma lo scatto più rappresentativo è senz’altro A Heravest of Death Messe di morte. Opera di Timothy O’Sullivan, condensa in sé tutto l’orrore della guerra: quasi fossero carcasse d’animale, i corpi riversi dei soldati si perdono a ridosso d’orizzonte, dove si stempera, offuscato, un cavallo che ricorda Zoran Mušič. La violenza dissemina i suoi morti, recisi come il grano dalla falce. È ciò che resta dopo lo scontro di Gettysburg, tra i più feroci dell’intero conflitto, che vide le truppe secessioniste battere per la prima volta in ritirata. “Credevo che i miei uomini fossero invincibili” commentò, punto sul vivo, il leggendario generale Lee.

La foto venne inclusa nel Photographic Sketch Book of the War di Alexander Gardner, che così glossava: “questa foto è portatrice di una morale assai propizia: mostra l’assoluta atrocità e realtà della guerra di contro alla sua celebrazione retorica. Qui emergono i dettagli più terrificanti! C’è da augurarsi possano servire per evitare che una stessa calamità colpisca di nuovo la nazione”. Parole che risuonano nel vuoto, almeno a giudicare da quanto che ne è seguito non ultimo l’impegno statunitense sui teatri della presuntaguerra al terrorismo ‘globale’.

Tornando alla mostra, sempre a Gardner dobbiamo alcuni tra gli scatti più incisivi, come quelli che immortalano le rovine dei Gallego Flour Mills di Richmond, allora capitale degli Stati Confederati, abbandonata quando ormai perduta. Come i russi incendiarono Mosca per vanificare l’occupazione napoleonica, così i Sudisti rasero al suolo i maggiori insediamenti produttivi, per renderli inutilizzabili alle incombenti armate federali. Gardner ritrasse gli esoscheletri degli edifici demoliti, spettrali come sarebbero state, esattamente ottant’anni dopo, le rovine di Dresda o Berlino subissate dai bombardamenti alleati.

Ma non è questo l’unico preludio alla barbarie e al suo infaticabile ripetersi. Mortifica lo sguardo il corpo, macilento, di un prigioniero del carcere di Andersonville, famigerato per le condizioni inumane e le abominevoli torture perpetrate ai reclusi. Impossibile non porre mente agli internati dei Lager nazifascisti e alle cavie dei medici della morte. Vale forse la pena riportare le impressioni di Walt Whitman che vide sfilare i detenuti appena rilasciati. Per un macabro ricorso della storia, sembra, il suo, un ritratto dei reduci dai campi di sterminio: “La vista è ben peggiore di quella di qualsivoglia campo di battaglia o di qualsiasi gruppo di feriti, per quanto sanguinanti […] Sono uomini questi che sembrano scimmie rachitiche, piccole e livide, cosparse di cenere e dalla pelle bruna? Non sono piuttosto cadaveri mummificati e in deperimento? […] Non c’è forse spettacolo più spaventoso che sia stato visto su questa terra. (Ci sono crimini e azioni che possono essere dimenticati, ma tutto questo non appartiene al novero).” Ecco allora che, dopo Auschwitz, il pensiero corre a Guantanamo o alle sevizie di Abu Ghraib. E vige la cronica, sconfortante constatazione per cui “chi non conosce la storia è costretto a ripeterla”. O forse è peggio ad infliggerla. 

 

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