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Processo Manning, parola alla difesa. Tutti i falsi dell’accusa che vuole l’ergastolo

L'avvocato David Cooms cercherà di convincere i giudici che la talpa di WikiLeaks ha cercato di mettere gli americani al corrente delle atrocità compiute dai soldati Usa, dopo che l'accusa lo ha dipinto come un traditore che ha messo a rischio la sicurezza degli Stati Uniti

Per settimane l’accusa al processo contro Bradley Manning ha cercato di dipingere il soldato come un “traditore” che ha messo a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti. Accusato di ben 22 reati, il più grave quello di “aiuto al nemico”, Manning merita, a giudizio dell’esercito e del governo americano, l’ergastolo. Oggi, quando la difesa guidata dall’avvocato David Cooms prenderà la parola, il clima sarà molto diverso. Manning si trasformerà in un giovane idealista che con le sue rivelazioni ha cercato di mettere gli americani al corrente delle atrocità compiute dai soldati USA in Afghanistan e Iraq.

Mentre la vicenda Snowden continua a tenere banco sui media internazionali e negli uffici delle cancellerie di mezzo mondo, in un’aula di in tribunale di Fort Meade, in Maryland, si sta svolgendo il processo all’altro whistleblower eccellente, all’altra “talpa” che attraverso WikiLeaks ha svelato i segreti del governo americano. Per cinque settimane l’accusa, guidata dal maggiore Ashden Fein, ha presentato le prove e interrogato i testimoni che dovrebbero mandare il 25enne Manning in galera per gran parte della sua vita. A dire il vero, la performance dell’accusa ha lasciato piuttosto sconcertati. In alcuni casi, è sembrato anzi che il governo americano si sia presentato al processo senza aver davvero calibrato la strategia accusatoria. Il momento forse più imbarazzante è stato quando l’esercito ha dovuto ammettere di non trovare il contratto originariamente firmato da Manning prima del suo arrivo in Iraq. Il documento – designato come “Acceptable Use Policy” (AUP) – è importante perché fissa limiti e condizioni dell’accesso di Manning ai files riservati dell’esercito. E quindi anche l’eventuale violazione di quelle condizioni. Il problema, appunto, è che l’AUP non si trova più – e una copia di riserva è stata bruciata.

Probabile che l’avvocato della difesa usi l’assenza dello AUP come modo per minare la tesi della diffusione non autorizzata di informazioni riservate dell’esercito. Un altro pesante passo falso dell’accusa – forse il più grave – è venuto con l’incapacità di dimostrare “l’intento generalmente malvagio” delle azioni di Manning. La tesi dei militari è infatti quella secondo cui Manning, passando documenti riservati a WikiLeaks, avrebbe coscientemente progettato di aiutare al-Qaeda e le altre formazioni terroristiche. “La decisione di trasmettere 700mila documenti dello Stato è stata calcolata e premeditata – ha detto Ashden Fein – e non provocata da una serie di esperienze disturbanti che Manning ebbe in Iraq”. Per dimostrarlo, l’accusa ha portato come prova il fatto che Manning avrebbe cominciato a diffondere documenti riservati pochi giorni dopo il suo arrivo alla Forward Operating Base Hammer, appena fuori Baghdad, nel novembre 2009. Tra questi documenti, ci sarebbe il video di un bombardamento compiuto da aerei americani sul villaggio di Garani, nella provincia afgana di Farah, finito sul computer di un amministratore di sistema del Brookhaven National Laboratory di Long Island, un’agenzia del governo USA, nel dicembre 2009. Il fatto è che il video del Brookhaven National Laboratory non è quello che Manning aveva sul suo computer, e che lui rese pubblico soltanto nell’aprile 2010. Più di cinque mesi dopo il suo arrivo in Iraq. Anche la tesi della premeditazione appare dunque difficile da dimostrare.

Tutte le cinque settimane gestite dall’accusa sono state comunque segnate da una serie di svarioni particolarmente gravi e singolari per un processo che amministrazione Obama e militari USA hanno scelto come strumento per dissuadere altri eventuali whistleblower, sull’esempio di Manning o di Edward Snowden. Il pubblico ministero ha cercato di collegare Managing a una “lista” compilata da WikiLeaks nel 2009, che enumerava i segreti più importanti che la comunità antisegretezza avrebbe voluto rendere pubblici. Secondo il governo USA, Manning usò proprio quella lista per guidare e orientare le sue rivelazioni. Il problema è che nessuna prova è mai stata portata per dimostrare che Manning abbia letto, o sia venuto a conoscenza, della lista di WikiLeaks. Come pure nessuna prova è stata portata dall’accusa per supportare la tesi che, nel raccogliere sul suo computer gli indirizzi mail di centinaia di militari, Manning rispondesse all’appello contenuto in un tweet di WikiLeaks, in cui si chiedeva di rendere pubblici più indirizzi mail possibili di militari impegnati in operazioni di guerra. Manning lesse mai quel tweet? Il governo USA dice di sì. Ma non riesce a portare alcuna prova.

La cattiva prova dell’accusa non rende soltanto più facile il compito della difesa – che mira a una condanna di Manning per reati minori, tali da comportare una pena massima di 20 anni. Rischia anche di indebolire l’intero teorema accusatorio agli occhi della giudice, il colonnello Denise Lind, che nelle udienze preparatorie del processo è stata chiara. Il governo americano, per riuscire a provare il reato più grave, passibile di ergastolo, e cioè “l’aiuto al nemico”, deve irrevocabilmente dimostrare che Manning passò consapevolmente, grazie a WikiLeaks, informazioni sensibili ad al-Qaeda e ai suoi vari rami. Il soldato non potrà essere condannato per “aiuto al nemico”, nel caso abbia agito “inavvertitamente, accidentalmente o con negligenza”. Da quanto visto finora, a meno di clamorosi colpi di scena, l’obiettivo dell’amministrazione Obama non è stato centrato. Ciò che, insieme alle difficoltà incontrate nell’arresto di Edward Snowden, potrebbe vanificare, o almeno rendere più complicato, quel “giro di vite” nei confronti delle “talpe” che Obama e i suoi si sono prefissati.