Con l’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, la riforma Gelmini ha cambiato radicalmente il modo in cui l’università recluta il personale docente.

Oggi per i ricercatori precari esiste solo una strada per accedere alle posizioni di ruolo: vincere un concorso da ricercatore a tempo determinato (RTD) “di tipo b”. Si tratta di una posizione che dura tre anni, al termine dei quali l’ateneo, se possiede le risorse necessarie, valuta nuovamente il ricercatore ai fini della “promozione” a professore associato (sempre che nel frattempo il candidato abbia ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale).

I concorsi RTDb insomma svolgeranno un ruolo cruciale nella definizione degli organigrammi dell’accademia, e anche dalla trasparenza di queste procedure dipende il futuro dell’università e della ricerca italiana.  

Futuro che rischia di essere nero, ancora più di quanto i limiti al finanziamento già lasciano presagire, se non si fermerà la pratica degli atenei di bandire concorsi illegali per determinarne ex ante l’esito.

Con i concorsi RTDb infatti le manipolazioni non si effettuano in sede di valutazione, ma più comodamente redigendo un bando di concorso che richieda al candidato dei requisiti talmente specifici, perché ritagliati sul profilo di un “predestinato”, da rendere impossibile la competizione. Il predestinato si occupa di economia del pene? Allora scriviamo nel bando che il concorso è rivolto agli esperti di falloeconomia. Il fortunato parla cinese? Allora riserviamo il posto ai candidati che parlano anche il cinese. E così via.

Ciò è illegale perché la legge prescrive che il profilo del candidato possa essere definito “esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico-disciplinari” (articolo 24 della legge 240/2010). Per esempio, il concorso può rivolgersi agli studiosi di economia politica e politica economica, mentre è proibito chiedere che il candidato si occupi in particolare dell’economia dell’Uganda o di determinati metodi di analisi economica. La norma implementa la raccomandazione della Commissione Europea che chiede il rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori. Gli atenei “dovrebbero istituire procedure di assunzione aperte, efficaci, trasparenti, favorevoli, paragonabili a livello internazionale” e gli annunci “dovrebbero contenere un’ampia descrizione delle conoscenze e delle competenze richieste, ma non dovrebbero richiedere competenze così specifiche da scoraggiare i potenziali candidati.” (pagina 25).

Il presupposto della norma è semplice: la ricerca scientifica richiede un grado di specializzazione estremamente elevato, che ha come inevitabile effetto collaterale la “compartimentazione” del sapere accademico: ogni ricercatore è preparatissimo sui suoi temi di ricerca (in genere due o tre), ma difficilmente può competere su altri temi con chi di questi ultimi si occupa da almeno un decennio. Bandire un concorso su un tema specifico equivale a escludere dalla competizione tutti i ricercatori che non hanno dedicato la propria carriera a quel tema, cioè il 99,99%.

Gli ultimi di questi casi in ordine di apparizione riguardano due selezioni per il reclutamento di 10 ricercatori a tempo determinato presso l’Università di Pisa e di 27 ricercatori all’Università di Parma (il caso è stato già denunciato dall’Apri, associazione precari della ricerca), per quasi tutti i posti sono richiesti profili molto specifici, in contrasto con quanto prevedono la legge, la Carta europea, e il buon senso.

La situazione è aggravata dal modo in cui sono formate le commissioni. Prima la loro composizione era definita dalla legge, che al commissario “interno” ne affiancava altri due sorteggiati in una lista di “esterni”. Ora la formazione delle commissioni è demandata ai regolamenti di ateneo, col risultato di una estrema diversificazione: si va dagli atenei virtuosi che scelgono il sorteggio integrale ad altri che blindano i posti in palio con delle commissioni integralmente “fatte in casa”.

La pratica dei concorsi illegali manda una intera generazione di ricercatori precari al macero. Gli outsider, cioè coloro che non hanno robusti legami con gli atenei che mettono a bando i posti, perdono ogni speranza di accedere alla carriera accademica. Così, una riforma nata per “togliere potere ai baroni” (secondo gli annunci del ministro di allora, quello dei neutrini in gita nel tunnel), ha di fatto aumentato la discrezionalità e l’arbitrio baronale.

Qualcosa si può fare, intendiamoci. L’Associazione Precari della Ricerca Italiani (APRI) ha preparato uno schema di lettera da inviare agli atenei che bandiscono concorsi illegali per chiedere la modifica del bando. E un ricorso contro una procedura che viola apertamente la legge ha buone probabilità di essere accolto.
Inoltre ci sono anche atenei virtuosi che hanno rinunciato alla cattiva pratica dei concorsi illegali. È il caso dell’Università Statale di Milano, che col nuovo rettore Gianluca Vago sta compiendo uno sforzo per aumentare la trasparenza nel reclutamento.

Ma è chiaro che il problema deve essere risolto alla radice, facendo rispettare l’obbligo per tutte le università di bandire concorsi aperti e trasparenti come prescrive la Carta europea dei ricercatori. E vista la recidività di tanti atenei, è il Ministero che deve prendere l’iniziativa. L’università italiana non ha futuro se non si ripristina la legalità nelle procedure di reclutamento.
 
Post scriptum: l’economia del pene esiste, se ne parla qui.

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