Raccontare il femminicidio in carcere, parlare con le detenute di violenza domestica e dell’uccisione di una donna da parte di un uomo. E’ andato in scena nel carcere femminile di Rebibbia lo spettacolo “Ex moglie si innamora (da morire) di ex moglie”, un testo scritto dall’autrice teatrale Betta Cianchini, che nei mesi scorsi ha lanciato la campagna contro la violenza di genere “Non nel mio nome, non con il mio silenzio assenso”. “Dopo l’esperienza e il riscontro emotivo di ‘Post partum‘, uno spettacolo di denuncia sulla solitudine delle madri, andato in scena nel carcere femminile di Rebibbia l’8 marzo del 2012 – spiega l’autrice – ci siamo rese conto di quanto il tema dei diritti delle donne fosse presente dietro le sbarre e di quanto le recluse vivessero la negazione di questi diritti in maniera amplificata. Da qui l’idea di portare uno spettacolo sul femminicidio proprio in un penitenziario femminile, come parte di un percorso di emancipazione delle donne in carcere, molte di quali hanno ammesso di aver subito quotidianamente minacce fisiche e psicologiche in ambito familiare, soprattutto di fronte a una possibile ribellione”.

Sono 390 le detenute nel carcere femminile di Rebibbia, su una capienza regolamentare di 257 posti. Nel 75 per cento dei casi si tratta di straniere. Il tasso di recidività è molto elevato ed è pari al 100 per cento tra le donne rom. “Un segnale negativo che non deve essere sottovaluto – afferma Mario Pontillo, responsabile dello sportello Rebibbia gestito volontariamente dall’associazione ‘Il viandante’ – Da quando il ministero di Giustizia ha tagliato i fondi al dipartimento di amministrazione penitenziaria, i progetti legati al reinserimento sociale e lavorativo della detenute sono molto pochi”. La scure dei tagli si è abbattuta anche sui progetti rivolti all’infanzia. A Rebibbia esiste una sezione nido, che ospita attualmente 16 bambini, figli delle detenute. “Erano stati bloccati i fondi che consentivano ai piccoli di frequentare il nido durante la settimana – racconta Gioia Cesarini Passarelli, presidente dell’associazione “A Roma, insieme – Leda Colombini”, che dal 1991 opera volontariamente nel carcere femminile – Il servizio è stato poi rifinanziato ma solo fino a settembre, dopodiché non esiste alcuna garanzia di continuità”. Un duro colpo per dei bambini che pagano fisicamente il costo della reclusione. I “figli di Rebibbia” soffrono tutti di bronchiti e asma, dovute al fatto di vivere in spazi poco areati e di miopia, perché l’occhio non viene stimolato a vedere a lungo raggio, oltre il muro di cinta.

I piccoli possono restare con le madri fino a tre anni, poi vanno in affido nel caso in cui non abbiano parenti. Eppure un’alternativa ci sarebbe. Si chiama Icam, l’istituto per la custodia attenuata delle detenute madri che dovrebbe operare sul modello delle case famiglia protette, come già sperimentato a Milano. Sono previsti da una legge del 2011 che dispone la stipula di una convenzione con gli enti locali per la realizzazione degli Icam entro il 2014, ma è proprio in questa convenzione la nota dolente. Le case famiglia protette sarebbero gestiste dagli enti locali che però non hanno più fondi neanche per mandare i bambini all’asilo. “A Roma, insieme” ha avanzato diverse proposte, dal riutilizzo delle caserme dismesse agli edifici abbandonati, che ancora oggi non hanno avuto riscontro. “Il carcere da zero a tre anni – afferma Gioia Cesarini Passarelli – è una violazione continua dei diritti dell’infanzia”.

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