Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo per caso, erano giorni che non parlava più. La cosa era strana, benché positiva, perché sin dal principio di questa non ben classificabile esperienza governativa, l’ex sindaco di Padova si era contraddistinto per la sua loquacità, oltreché per una certa incompetenza. In particolare distillando vaghe e, in taluni casi ridicole ricette su cosa serva per far ripartire l’economia.
Il silenzio di Zanonato pareva potesse spiegarsi col fatto che qualcuno lo avesse finalmente invitato a studiare la materia ed un po’ di dossier prima di proferire verbo. Invece ieri ha rotto il silenzio. Confermando la sua tensione ad inseguire la contingenza, ma non ad applicarsi per provare a capire come abbozzare uno straccio di politica industriale per questo malconcio Paese. Magari prendendo spunto da quello che ha fatto la Germania. Dove negli anni in cui l’Italia perdeva una serie di campioni produttivi, assecondava una progressiva finanziarizzazione dell’economia e assisteva inebetita a scandalose operazioni di delocalizzazione produttiva, si faceva politica industriale. Innanzitutto nell’ottica di rafforzare segmenti produttivi più “sofisticati” e meno aggredibili dalla concorrenza.
Perché nell’ossatura industriale tedesca ambiti produttivi “poveri”, come il tessile-abbigliamento, le calzature, gli articoli da viaggio, alimenti e bevande, rivestono un ruolo marginale. Il che conferma la scelta dei tedeschi di puntare verso produzioni più forti, ad elevato contenuto tecnologico e dunque meno esposte alla competizione globale.
Nel caso della nostra industria manifatturiera, invece, in assenza di indirizzi di politica industriale, la specializzazione produttiva si è andata concentrando negli anni su settori “poveri”, come ad esempio il tessile-abbigliamento, i mobili, l’ottica, gli articoli da viaggio, i prodotti di pelle e cuoio o in plastica. È superiore alla media dei paesi europei la specializzazione nelle produzioni di macchine per la lavorazione dei metalli, di macchinari ed impianti a controllo numerico. Ma ciò non è sufficiente a compensare una debolezza di fondo della nostra struttura produttiva, dove la specializzazione è di molto inferiore alla media in settori determinanti, come la produzione di veicoli, di apparecchiature elettroniche, le telecomunicazioni, la chimica. Segmenti, questi ultimi, nei quali non a caso primeggia la Germania. Che ha ha avuto la capacità di comprendere in tempo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, come stesse cominciando a spirare un vento nuovo e forte. Noi da quel vento ci siamo fatti invece travolgere. Senza capire che avrebbe messo alle corde una organizzazione industriale non fondata su alcuni assi prioritari e molto frammentata, il nanismo di impresa, la sua dimensione familistica e la conseguente incompetenza manageriale, nonché l’insufficienza di capitali nell’impresa. E che avrebbe fatto tramontare secondo cui il distretto, come meccano industriale in cui si costruisce una supply chain locale, ci avrebbe permesso di navigare a vele spiegate nel mare aperto del mercato globale senza barriere.
Certo, nel confronto con la Germania gravano come macigni sulla capacità competitiva della nostra manifattura fattori storici. E che dovrebbero essere arcinoti allo stesso Zanonato. Come un fisco che si succhia poco meno del 70% degli utili, una burocrazia che non ha eguali al mondo, una criminalità che mette sotto scacco un terzo dell’economia nazionale; una frammentazione eccessiva nelle attività di ricerca scientifica e di trasferimento tecnologico; un contesto normativo, fiscale e finanziario che non invoglia gli imprenditori a fare salti dimensionali aprendo il capitale delle loro aziende familiari al mercato; un deficit di concorrenza nei mercati dei beni e, soprattutto, dei servizi, a cominciare da quelli di pubblica utilità con la conseguenza che l’energia costa in Italia almeno il 30 per cento in più che in Germania; l’insufficienza di sinergie tra imprese e mondo della formazione tecnica e universitaria, ma anche tra ricerca privata e ricerca pubblica. Cose note, insomma, su cui si straparla da decenni. E che contribuiscono a spiegare con ancora maggiore evidenza come mai, dopo che in Germania ed in Italia si è assistito nel 2009 ad tonfo della produzione industriale (-15,6 % in Italia e -16,7% in Germania), questa, nel 2010, sia cresciuta in Italia del solo 4,8 e in Germania del 10,3 per cento.
Tutto ciò insomma per dire che l’industria italiana soffre e non si riprende, come è accaduto invece a quellla tedesca dopo il tonfo del 2009, per ragioni di politica industriale, ma anche per deficit strutturali. Da qui Zanonato dovrebbe partire per tentare di dire, senza frasi fatte e banalità già ascoltate da tanti suoi predecessori, cosa ha in mente per rilanciare la manifattura italiana e di conseguenza la competitività del Paese. Il resto, in un continuo balletto di ipotesi, conta nulla.
@albcrepaldi