Il collaboratore di giustizia è accusato di evasione fiscale insieme ad altre 12 persone per un ammontare di 30 milioni di euro. Il pm Valentina Salvi deve far luce sul fallimento di un'azienda chiusa 5 anni fa e sulla scomparsa di scritture contabili e documenti
Indagato a Ferrara per associazione a delinquere finalizzata alla truffa sull’Iva e ora anche a Reggio Emilia per bancarotta fraudolenta. Si sdoppiano le indagini su Massimo Ciancimino, l’imprenditore siciliano figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, collaboratore di giustizia e imputato nel processo in corso sulla trattativa Stato-mafia. L’inchiesta – che lo vede accusato assieme ad altre 12 persone di una maxi evasione fiscale da 30 milioni di euro – avviata nel 2009 dalla Guardia di finanza di Ferrara e poi trasmessa alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, è infatti giunta sul tavolo del pm reggiano Valentina Salvi. Che ora dovrà fare luce sul fallimento di un’azienda chiusa 5 anni fa, a dicembre, con tanto di sentenza e azzeramento del patrimonio, e sulla scomparsa di scritture contabili e documenti, spariti, secondo gli inquirenti, per rendere impossibile la ricostruzione dei redditi e il volume d’affari dell’azienda.
La vicenda che coinvolge il “postino del papello“, il testimone che contribuì alle indagini condotte sulle stragi di Cosa Nostra del 1992-1993 e quindi all’inchiesta di Palermo sul patto tra istituzioni e Cosa nostra per fermare le bombe in cambio di un ammorbidimento del 41 bis, risale al 2007. Quando, secondo la Guardia di finanza ferraresi, che per prima iniziò a indagare sulle attività dell’associazione di cui l’imprenditore siciliano faceva parte, Ciancimino fu tra i promotori di un’operazione nel settore della commercializzazione di metalli ferrosi. Operazione attuata da alcune società, tra cui la Errelle srl con sede a Reggio Emilia, poi trasferita formalmente a Panama, che portò, tra il 2007 e il 2009, a un’evasione fiscale da 30 milioni di euro.
Coinvolti nell’attività illecita erano anche la 56enne modenese Patrizia Gianferrari, Gianluca Apolloni, presunto commercialista che si occupava “spostare” le aziende a Panama, e l’imprenditore di Parma Paolo Signifredi. Questi, secondo gli inquirenti, insieme a Ciancimino erano i promotori dell’associazione. Per loro, e per altre 9 persone, Mario Carlomagno, Mario Paletta, Massimiliano Paletta, Ennio Ferracane, Giulio Galletto, Walter Lotto, Armido Manzini, che si occupava di reperire aziende inattive da riutilizzare per le frodi, Elena Rozzanti e Etois Safà, il 29 maggio scorso il gudice per le indagini preliuminari di Bologna Bruno Perla ha firmato 13 richieste di custodia cautelare.
Arrestato con l’aggravante – ipotizzata dalla Dda, ma successivamente caduta – di aver intessuto contatti con la ‘ndrangheta, in particolare con i Piromalli di Gioia Tauro – accusa data da alcune intercettazioni tra Ciancimino e Girolamo Strangi, considerato legato alla cosca – il figlio di Don Vito, oggi imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia ai danni dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, ha ottenuto da entrambi i gip, Ferrara e Reggio Emilia, gli arresti domiciliari, per aver fornito “un importante contributo alle indagini”.
Come spiega il suo avvocato, Roberto D’Agostino, intervistato dalla Gazzetta di Reggio, l’imprenditore siciliano non era “titolare delle società finite sotto inchiesta, ma svolgeva semplicemente attività di intermediazione nella vendita dell’acciaio” ed “è stato chiarito che non ha organizzato lui la truffa, perché quando ciò è avvenuto il mio assistito era sottoposto ai limiti della libertà per il vecchio processo di riciclaggio in cui è coinvolto. È stato anche chiarito che allora non conosceva ancora gli autori dell’operazione truffaldina” .