Ci sono uomini le cui opere resistono al tempo. Magari si impolverano, ma se ci soffiate sopra tornano splendenti come quando sono nate. Sono uomini che sanno davvero analizzare e capire la realtà.

Quando riguardo ‘La dolce vita’ (e mi capita spesso), ogni volta mi stupisco della capacità di Federico Fellini di andare a fondo di quella realtà, di vedere il vuoto che si nascondeva tra le pieghe dell’Italia del boom.

Pier Paolo Pasolini era un altro di questi grandi uomini, un uomo che vedeva la fine dell’Italia contadina con i suoi antichi valori soppiantata dall’omologazione della rampante economia capitalista, con la televisione a fare da apripista. Anche con gravi ripercussioni sull’ambiente (come non ricordare la scomparsa delle lucciole? “Il fenomeno è stato fulmineo e sfolgorante: dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato.”) e soprattutto sul paesaggio. La civiltà dei consumi (“il vero fascismo”) distrugge il paesaggio interiore degli uomini esattamente come quello esteriore.

Nel 1973 Pasolini realizzò un film per la Rai pressoché sconosciuto “Pasolini…e la forma della città”. È stupefacente l’attualità che ancora oggi sprigiona da quelle immagini ed è davvero straziante che egli affermasse sconsolato che oramai non c’era più nulla da fare, che il capitalismo omologante l’aveva avuta vinta in pochi anni. Profetico: il degrado è continuato galoppante e l’Italia di allora sembra quasi un gioiello rispetto al degrado di oggi.

Pasolini fu espulso da partito comunista. Alla sua morte, De André gli dedicò la magnifica “Una storia sbagliata”.

 

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