Ieri il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, aveva annunciato la presenza del ministro Alfano al question time alla Camera. Oggi invece si è presentato il premier, che ha confermato l'esistenza di alcune discrepanze nella vicenda
Parole vuote, assenze ingombranti e una strategia difensiva affidata a un lancio dell’Ansa che si dimostra assai debole dal punto di vista fattuale. Scricchiola sempre di più la posizione di Angelino Alfano sull’onda degli ultimi sviluppi sul rimpatrio coatto della moglie e della figlia di Ablyazov, il noto dissidente kazako. Oggi, dopo sei anni, un premier tornava a rispondere alla Camera per il Question Time, ma l’occasione fare le domande a Enrico Letta sull’operato dell’esecutivo nella questione della rendition kazaka è stata clamorosamente mancata, lasciando alla Lega Nord la possibilità di formulare i quesiti, mischiando attacchi al Governo e ai migranti a una difesa della legge Bossi-Fini. E così, il primo ministro delle larghe intese ha potuto limitarsi ad annunciare indagini, aggiungendo che nell’operazione di rimpatrio c’è stata “una correttezza formale dei vari passaggi” e, al massimo “dubbi su modi e tempi”. Più che le parole, meglio allora indagare sui silenzi. E sulle assenze.
La prima è quella del ministro degli Interni Angelino Alfano, considerato il responsabile della (mala) gestione della faccenda Ablyazov. Solo ieri il presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, aveva annunciato di avere ottenuto rassicurazioni che il ministro Alfano avrebbe risposto di persona al Parlamento. Ma così non è stato. Invece la strategia difensiva di Alfano è stata dettata ieri all’Ansa, che in una nota ha riportato ‘indiscrezioni’ del Viminale che difendevano l’operato della Questura di Roma: l’organo competente che ha gestito tutta la faccenda, e che ovviamente fa capo al ministero degli Interni. Ricordando sempre che le stranezze cominciano proprio a partire dalla nota inviata alla Questura dell’ambasciata kazaka, in cui si avvisava della presenza dell’oppositore politico Ablyazov a Roma, da cui parte tutta la vicenda. Una nota inoltrata direttamente alla Questura, e non al dicastero degli Esteri e, come prassi a livello procedurale, anche a quello della Giustizia.
Meglio quindi procedere col fact-checking. Nella difesa di Alfano lanciata ieri dall’Ansa si continua a considerare falso il passaporto della Repubblica Centrafricana in possesso di Shalabayeva al momento del fermo, quando è stato invece dimostrato fin da subito dai legali della donna che non lo era. Come ha poi confermato il 25 giugno – troppo tardi – la sentenza del Tribunale del Riesame. Inoltre, le fonti del Viminale virgolettate dall’Ansa, sostengono che “non sussistono dubbi sulla correttezza dell’attività svolta dalla Questura di Roma in quanto la cittadina kazaka è entrata nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera; inoltre, la sola assenza sul documento di timbri o visti di ingresso legittimava il provvedimento di espulsione, ai sensi del Decreto legislativo n. 286/98”. Eppure l’avvocato Riccardo Olivo non ha esitato a definire le procedure “insolite” e il decreto di espulsione “fortemente illegittimo”.
Vediamo perché. Dai documenti visionati da ilfattoquotidiano.it risulta che la Questura di Roma ha ricevuto il 30 maggio dall’ambasciata kazaka una nota in cui è scritto che la donna è in possesso di due passaporti validi rilasciati in Kazakistan (N° 0816235 e N°5347890). Passaporti che evidentemente avrebbero dovuto permettere il rimpatrio volontario della signora, e non coatto, come è invece stato. Con un rimpatrio volontario i tempi del rientro si sarebbero allungati e gli avvocati avrebbero potuto consegnare agli inquirenti un valido permesso di soggiorno lettone, ulteriori prove che il passaporto centrafricano non era falso e, soprattutto, fare domanda di asilo politico.Ma quel fatidico pomeriggio del 31 maggio, quando gli avvocati ancora aspettavano di incontrare Shalabayeva nel Cie di Ponte Galeria, lei era già a Ciampino su un aereo austriaco prenotato dall’ambasciata kazaka con un sospetto anticipo sui tempi. Ovvero alle 11 di mattina del 31 maggio, prima ancora che il Giudice di pace del Cie di Ponte Galeria convalidasse il fermo di Shalabayeva, dato che l’udienza, come da verbale, è terminata dopo le 11.20 di quella stessa mattina. E Shalabayeva quel pomeriggio si trovava già a Ciampino perché una informativa – visionata da ilfattoquotidiano.it – inviata alla Procura nel primissimo pomeriggio dalla Questura (in particolare dall’Ufficio Immigrazione diretto da Maurizio Improta, che fin da subito ha diretto le operazioni) diceva che non erano necessari ulteriori accertamenti e bisogna procedere immediatamente con il rimpatrio.
Poi le fonti del Viminale citate dall’Ansa sostengono che Shalabayeva “pur avendo avuto la possibilità di chiedere asilo in Italia, non ha mai esercitato tale facoltà”. Allora è bene ricordare che la Shalabayeva e la piccola Alua, al tempo di soli 4 anni, nel 2011 decisero di lasciare Londra, dove pure l’asilo politico britannico concesso ad Ablyazov le copriva ‘per estensione’, per paura di un attentato, come aveva riferito loro la London Metropolitan Police. Da lì madre e figlia sono state costrette a girare per l’Europa approdando prima in Lettonia e poi in Italia, dove sono entrate senza denunciare la loro presenza proprio per non essere rintracciate dagli uomini di Nazarbayev. Poi hanno vissuto per poco più di un anno nella villa di Casal Palocco con la paura di essere scoperte dagli scagnozzi del dittatore kazako. E che qualcosa non fosse tranquillo lì intorno, è confermato anche dalla presenza di due uomini che si muovevano lungo il perimetro della villa, che poi si è scoperto essere due dipendenti di un’agenzia investigativa che a sua volta aveva legami con i servizi segreti israeliani.
In questa situazione di terrore Shalabayeva, nella sua memoria pubblicata dal Financial Times, racconta come l’irruzione improvvisa il 29 giugno di 50 uomini armati nella villa sia stata fatta da uomini della Digos e della Questura senza divisa né segni distintivi. La donna ha spiegato che temeva fossero i famigerati scagnozzi di Nazarbayev, e ha anche accusato alcuni poliziotti di averla spintonata a terra e altri di avere picchiato il cognato. Per questo, dice, nell’immediato ha preferito presentarsi con il passaporto Centrafricano per non dichiarare la sua identità. Quando poi ha trovato assistenza legale, e ha deciso di chiedere asilo politico, l’aereo era già in pista coi motori rombanti per l’espulsione più rapida mai avvenuta in Italia: 72 ore dalla prima informativa ricevuta in Questura al decollo del jet austriaco che le avrebbe riportate nelle fauci del dittatore. Pertanto i “dubbi sui modi e sui tempi” di cui parla Letta non possono essere dissociati dal contesto in cui è avvenuta quella che si sembra essere sempre più una rendition che un semplice rimpatrio, per di più nei confronti di una donna di 46 anni e di una bambina di 6.
In serata, si apprende che la Procura di Roma sta valutando se inoltrare al ministero della Giustizia una rogatoria internazionale per verificare l’autenticità di alcuni documenti, tra cui un passaporto, emessi dalla Repubblica Centrafricana ed esibiti in Italia da Alma Shalabayeva, moglie di Mukhtar Ablyazov. Da qui la possibilità di una rogatoria, anche se nella Repubblica Centrafricana, recentemente al centro di un colpo di stato, non esiste una rappresentanza diplomatica italiana. Intanto gli inquirenti si accingono ad acquisire il passaporto detenuto dall’ufficio immigrazione della Questura.
Modificato da Redazione web alle ore 20.05
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