Un viaggio all’interno delle carceri italiane per fare luce su un aspetto spesso trascurato, che riguarda la condizione delle donne detenute, il 90% delle quali sono madri di uno o più figli, nella metà dei casi minorenni. “Mamma è in prigione” (edizioni Jaka book, 15 euro) è il risultato di un’inchiesta lunga un anno realizzata dalla giornalista Cristina Scanu, costruita attraverso gli incontri con le recluse, i loro figli e con chi nelle prigioni ci lavora (educatori, volontari, direttori, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria). Di donne e carcere si parla poco, anche a causa della ridotta percentuale femminile, che rappresenta il 5% del totale. Pur essendo “soltanto” 2.820, però, le donne detenute hanno una serie di problemi legati soprattutto alla relazione con i figli.
Anche se non ne hanno colpa, 60 bimbi stanno trascorrendo i primi 3 anni di vita dietro le sbarre, in spazi fatiscenti, sovraffollati e malsani (4 detenuti su 10 soffrono di una malattia infettiva). Alcuni sono nati in prigione, altri sono stati portati dietro le sbarre per un essere tenuti lontani dalle madri. Il giorno del loro terzo compleanno si consuma il distacco: vengono affidati a parenti, a volte ai padri ma spesso ai nonni (molte detenute hanno compagni o mariti a loro volta in carcere), oppure messi in istituti. Il carcere e la separazione – a quell’età impossibile da capire – li segnano per sempre, come spiegano le psicologhe e le assistenti sociali intervistate da Scanu, creando ritardi nell’apprendimento e un profondo disagio emotivo.
Ci sono due leggi, in particolare, che cercano di regolamentare questa situazione. La prima è quella dell’8 marzo 2011 che prevede “che le donne con figli piccoli possano godere di benefici come la possibilità di assistere e curare la prole che ha meno di dieci anni con la detenzione domiciliare speciale e il differimento dell’esecuzione della pena fino all’anno di vita del neonato per poterlo allattare”. Questa norma, però, non vale per le donne recidive, che sono una buona parte del totale. E tra quelle che potrebbero usufruire dei domiciliari, ce ne sono parecchie che non hanno una casa dove andare (come accade a molte straniere). La seconda, che entrerà in vigore il primo gennaio 2014, “prevede che le mamme incinte o con bambini fino a sei anni, se imputate, non possano essere sottoposte a custodia cautelare in carcere, salvo esigenze di eccezionale rilevanza. Per le condannate è prevista la possibilità di scontare un terzo della pena ai domiciliari o in istituti di cura o a custodia attenuata, purché non abbiano compiuto particolari delitti”.
Fino a oggi, scrive Scanu, l’unico spazio in Italia creato apposta per permettere alle madri con figli piccoli di scontare la pena fuori dall’ambiente angusto del carcere è l’Icam, l’Istituto a custodia attenuata di Milano (la Lombardia è la regione con maggior numero di detenute) che ha ospitato, dal 2007 al 2011, 167 mamme e 176 bambini. Esistono progetti simili in altre città ma l’unico che sarà realizzato in tempi brevi è quello di Venezia. A causa dei tagli degli ultimi governi sarà difficile che nascano presto strutture simili. La scure che si è abbattuta sulle carceri penalizza anche i bambini che in prigione ci sono già: a Rebibbia per anni è stato attivo un servizio che permetteva ai piccoli di frequentare l’asilo nido comunale esterno (come avviene a Genova, Milano, Venezia e Torino), ma “dal gennaio 2013 è stato interrotto perché sono finiti i soldi per il pulmino”.
In prigione le donne ci finiscono soprattutto per furti, scippi, reati legati al consumo di stupefacenti, rapine. La maggior parte (ma questo riguarda tutta la popolazione carceraria), prima di ritrovarsi in cella viveva già in condizioni di disagio e marginalità sociale. Il 34% delle detenute ha il diploma di scuola media inferiore mentre il 15,5% la licenza elementare. Tra di loro molte sono straniere: non essendo regolarmente residenti in Italia e non avendo denaro, non riescono nemmeno ad avvalersi del gratuito patrocinio e devono affidarsi a un avvocato d’ufficio, presente solo alle udienze, che cambia in continuazione e raramente conosce la loro storia giudiziaria. Vite difficili, ricorda Scanu, che condizionano irrimediabilmente anche quelle dei bambini: secondo Eurochips (il network europeo per i bambini che hanno genitori in prigione) un terzo dei figli di detenuti è destinato a finire in carcere a sua volta.