Irina Khanova, cofondatrice delle Femen tedesche, ha messo in scena una contestazione solitaria, ieri, al Neues Museum di Berlino. Di fronte al busto antico di Nefertiti, Irina ha mostrato al mondo il suo seno nudo, decorato dalla scritta “L’Islamismo stupra l’Egitto”. Manifestava a sostegno delle donne egiziane e della protesta anti-Morsi, chiedendo la cessazione immediata dello stupro delle donne in piazza Tahrir reso pubblico da un recente comunicato di Human Rights Watch.
Non ho potuto fare a meno di sentire un moto di fastidio di fronte a questo ennesimo gesto di protesta solitario, urlato e auto-referenziale, dubbiosa rispetto a quanto le donne egiziane trovino davvero una fonte di sostegno in questo tipo di espressioni di solidarietà.
Dopo essere stata scortata dagli agenti di sicurezza del museo all’uscita, la Khanova ha spiegato che la scelta del busto di Nefertiti non è affatto casuale: “Nefertiti è un grande simbolo per le donne, per le donne libere; noi vorremmo ispirare e sostenere le donne egiziane, che dovrebbero venire allo scoperto, smettere di avere paura e iniziare davvero a battersi per i loro diritti”.
Poi, senza una denuncia, del tutto illesa, la Khanova se n’è andata.
Deve essere che non ne posso più di questo paternalismo in salsa femminista, ma davvero la protesta mi è apparsa più ridicola del solito. Manifestare a seno nudo in un museo berlinese, rischiando al massimo di essere scortata all’uscita, per ispirare alla protesta, incitare e consigliare le donne di piazza Tahir… certo, ci vuole un bel coraggio!
Non è tanto il sistema di provocazione ad oltranza, adottato dalle Femen, ad infastidirmi in modo quasi viscerale, quanto l’idea arrogante e incredibilmente eurocentrica che il femminismo sia universale e che la battaglia per i propri diritti, per la riapproprazione del proprio corpo e per l’emancipazione possa declinarsi in modo identico per ogni donna, ogni storia, ogni cultura. Come se mostrare il proprio seno possa essere un emblema di liberazione e riscatto che funziona, con la stessa simbologia, ad ogni latitudine, come se questa lotta fosse un modo per ‘educare’ le donne musulmane, rendendole finalmente libere ed avanzate come noi. Trovo semplicemente stupida l’idea che sta alla base di quest’idea di femminismo, ovvero che una donna sia donna e basta, che il suo essere femmina basti a definirla, al di là di ogni componente religiosa, etnica o nazionale. E che il suo essere donna significhi, in buona sostanza, essere come noi: donne bianche, occidentali, della classe media.
Non sono un’esperta di Islam, ma mi rivolta il messaggio strisciante del femminismo delle Femen, quasi a dire che le donne musulmane vadano “salvate”. Salvate dai loro mariti, dal loro velo, dai loro codici comportamentali, in fin dei conti dalla loro religione, tout court, senza alcuna sfumatura. La trovo un’idea pericolosamente semplicistica e basata sulla convinzione, molto in auge tra le femministe della prima era, che le donne di tutto il mondo dovrebbero diventare come noi. Per cui, civilizziamole.
Ma come noi come, esattamente? Come noi che vediamo l’emancipazione affermarsi via via che ci denudiamo? Come noi così soggette a canoni estetici innaturali e alle loro spietate leggi? Come noi, dicevo, donne bianche, occidentali e della classe media?
Mi piacerebbe tanto che le Femen si prendessero una pausa, scendessero dallo scranno che si sono costruite e, invece di continuare a mostrare il loro seno a sostegno alle donne di questo o quel paese, si rimboccassero le maniche e con le donne di questo o quel paese ci andassero a parlare, chiedendo loro quali sono le battaglie e le forme di protesta che potrebbero aiutarle e quali invece nuocergli.
Perché non credo che l’emancipazione, quella vera, vada necessariamente di pari passo col mostrare i propri capezzoli, né con la riappropriazione urlata della nudità, ma piuttosto col poter scegliere della propria esistenza, compreso il proprio corpo, secondo il contesto socio-culturale, economico e politico in cui ciascuna di noi vive e che non sempre, non tutte vogliono rigettare in toto, nemmeno tra le femministe più emancipate.
Ma sopratutto perché in fondo non credo che una donna egiziana, nel contesto socio-culturale, economico e politico di piazza Tahir, se ne faccia molto dei capezzoli all’aria di una designer tedesca, che anzi forse trova pure offensivi.