Una mostra unica che racconta una storia fatta di scontri politici, burocrazia, ribellione e protesta, di quotidianità vissuta ai margini, di lutti, discriminazioni e lotta. Con le sue 500 fotografie e opere d’arte, i suoi film, video, magazine, libri e documenti, molti dei quali completamente inediti, l’esposizione fa leva sul valore dell’immagine, che ha una tale potenza evocativa da rimanere inesorabilmente impressa nella memoria.
“La fotografia” dicono gli stessi curatori “ha trasformato il proprio linguaggio da mezzo puramente antropologico a strumento sociale. Ed è questa, quindi, la ragione per cui nessuno ha saputo cogliere la situazione del Sud Africa e della lotta all’apartheid meglio, in modo più critico e incisivo, con una profonda complessità illustrativa e una penetrante introspezione psicologica, di quanto abbiano fatto i fotografi sudafricani”.
Che, con i loro scatti, hanno impresso contemporaneamente la violenza e la rabbia della segregazione ma anche la voglia di cambiamento e di libertà. Come quella lunga fila di bare in legno scuro, fotografate da Peter Magubane durante i funerali a Sharpeville, per commemorare chi aveva perso la vita protestando pacificamente contro i tesserini speciali che permettevano l’accesso ai “luoghi dei bianchi”. O la disperazione di Pauline Moloise e Winnie Madikizela Mandela al servizio funebre per Benjamin Moloise, condannato alla pena capitale nel giugno del 1983 perché sospettato di aver ucciso un poliziotto nero.
O, ancora, la protesta della folla immortalata da Eli Weinberg vicino alla Drill Hall all’apertura del processo per tradimento o il ritratto di un giovane Nelson Mandela, simbolo di questa “rivoluzione”, in abiti tradizionali e in “fuga” dalla polizia.
Una lunga ricostruzione iconografica per un racconto storico, politico e sociale ad alto impatto emozionale e che, grazie alle scelte del centro internazionale newyorkese e del curatore Okwui Enwezor, va oltre alle comuni classificazioni di saggio fotografico e reportage.