Cultura

Gabriele Frasca: la poesia torna dal suo esilio

Ci sono libri particolarmente importanti, che in qualche modo segnano una svolta.

E’ il caso di questo Rimi che Gabriele Frasca pubblica nella collana Bianca della Einaudi e che è, imho, l’uscita più rilevante di questo 2013 in poesia.

Diviso in tre sezioni apparentemente molto diverse, è in realtà un’opera estremamente compatta e con uno scopo di poetica ben preciso: riaprire, una volta e per tutte, un discorso serio sulla poesia e sui suoi rapporti con l’oralità e con l’io lirico, in una società come quella attuale nella quale la cultura ‘alfabetica’, ‘muta’, segna sempre più il passo e mostra segni evidenti di usura.

La poesia è l’unica arte al mondo ad aver cambiato nel tempo il medium della sua trasmissione: nata per l’orecchio, essa è poi divenuta silente e scritta, un’arte per l’occhio, ma da tempo ormai ha ripreso la parola.

Un grande critico, Paul Zumthor, diceva che la poesia  – con l’avvento della stampa – è andata in esilio dalla voce.

Ecco, Rimi è un segno tangibile, e di qualità irrespingibile, di come da questo esilio, ogni giorno che passa, la poesia stia tornando e, sulla strada del suo ritorno, stia facendo giustizia di tutti i luoghi comuni romantici e simbolisti che ne appesantiscono il mutamento come pelle morta.

È un libro da leggere con le orecchie Rimi, come direbbe Joyce, e dunque vi invito intanto a recarvi sull’audiosito di Frasca e a ascoltare le sue letture di alcuni passi, altrimenti vi mancherà un aspetto essenziale di questa poesia: la sua ‘oratura’.

Avete sentito? Avete percepito come il basso continuo di Frasca scandisca ritmi, tempi e accenti con maestria?

Ecco, oggi la poesia è anche questo e soprattutto in questo sta, a mio giudizio, la sua speranza di futuro.

Per tornare al libro, la sua prima sezione è occupata da una serie di raffinatissimi sonetti alla Quevedo in cui si mescolano accenti e forme che rimandano al Barocco e a Beckett (di cui Frasca è ottimo studioso e traduttore), in cui i Trovatori e Cavalcanti si danno la mano con Joyce, per scoprire paesaggi verbali nei quali eros, morte, crudeltà e piacere del corpo si danno il cambio in sella a versi di metrica battente, quanto ineccepibile.

C’è tutto il campionario della poesia d’amore e di quella dedicata alla morte, al disfacimento, alla fine, con echi evidenti sin del Michelangelo poeta.

Ciò che fa Frasca, però, è molto di più che comporre una serie di sonetti apparentemente neo-barocchi: egli costruisce una linea interpretativa che unisce, sotto traccia, parola dopo parola, verso dopo verso, fiato a fiato, secoli e secoli di poesia del corpo e della voce, della materia e dell’emozione, inveramento di una sua vecchia idea, quella che le forme ‘chiuse’ siano oggi segno di una nuova ‘fluidità’, sotto forma di “dolce stilo”, come lui stesso ha avuto modo di definirlo, mescolando ossimoricamente la dolcezza stilnovista (e la novità stilnovista) alla artaudiana crudeltà dello stilo, del pugnale, insomma.

Ancora più stimolante è complessa è Rimi, la seconda sezione, che dà nome al libro.

Lunghe lasse di quella che apparentemente è prosa poetica narrano, lungo l’incedere di un giorno, la vita e la morte di un evanescente, ma assolutamente corporeo personaggio.

Ma non si tratta di prosa poetica, si tratta di poesia. Perché la poesia può fare a meno del verso, e per millenni lo ha ignorato, il verso serve alla poesia solo per ‘stare in pagina’, ma, se la poesia esce dal libro, allora il verso perde ogni significato.

Ciò che conta davvero è il ritmo e le sue unità prosodiche, ma, per segnare quelle, basta un punto. Un punto in alto come facevano i Trovatori. Un punto in basso come fa Frasca.

Chi abbia dubbi provi ad ascoltare le letture che ne dà l’autore e le sue orecchie renderanno visibile ciò che gli occhi non percepiscono sulla pagina, quel ‘verso’ che della poesia non è affatto una caratteristica essenziale, non di tutta la poesia almeno, e che in realtà non è altro che la manifestazione grafica di una misura metrica. 

In realtà, la vera protagonista di Rimi è la voce, quella pronunciata e quella ascoltata, quella immaginata e quella strozzata in gola, il suo testo è integralmente uno ‘spartito’, in attesa della sua ‘oratura’, della sua esecuzione nel tempo.

«se non dovesse fare da confine non c’è chi sentirebbe il proprio corpo. e perché vi coaguli la carne occorre che s’impasti con il fiato.»

Questo vale anche per l’ultima sezione del libro dedicata a una serie di trans-creazioni da Dylan Thomas, maestro della poesia per voce, in cui l’intento del traduttore non è tanto la fedeltà linguistica, o semantica, quanto quella ritmica, melodica, di respiro.

Peraltro, tutte e tre le sezioni di questo Rimi e le loro caratteristiche formali e poetiche – forme chiuse apparentemente manieriste, verso che sparisce nel flusso del ritmo esecutivo, trans-creazioni – si presentano solidamente come espliciti modi per negare ogni diritto alla tradizione romantica prima e simbolista poi, proprio quella che, trasformando il poeta in un veggente,  e legandosi mani e piedi al suo ‘io’, ne sanciva in realtà, agli albori della stampa di massa e del libro come bene di consumo generalista, l’espulsione ai confini più estremi e dimenticati della semiosfera letteraria e della cultura occidentali, statuendo la sua condizione di ‘minorità’.

Insomma, ciò che conta non è tanto che Rimi sia una splendida opera di poesia, e lo è, quanto che esso sia, piaccia o non piaccia, un’opera decisiva, che prende partito, dunque un’opera con cui molti dovranno, d’ora in avanti, fare i conti.