Il caso Kenyatta e il futuro del Tribunale Penale Internazionale
Per i sostenitori del primo
Tribunale Penale Internazionale (TPI) permanente della storia non è un momento facile: la lunga battaglia politica e diplomatica vinta nel 2002 con l’istituzione del TPI , rischia, a breve, di venire risucchiata dalle sabbie mobili della realpolitik. A mettere a rischio questa istituzione, non priva di zone d’ombra ma simbolo, almeno sul piano dei principi, di un importante traguardo di civiltà è
il processo a carico del neo-eletto presidente keniota, Uhuru Muigai Kenyatta, e del suo vice
William Ruto, entrambi alla sbarra per la vicenda dei disordini seguiti alle elezioni presidenziali del 2007.
Il 9 luglio, come stabilito da tempo, avrebbe dovuto avere inizio il procedimento, ma
lo scorso 20 giugno, accogliendo le richieste della difesa, il Tribunale ha deciso di posticipare a novembre l’avvio del processo a Kenyatta, ufficialmente per permettere alla difesa di poter studiare meglio le carte e di consentire a Wiliam Ruto, che dovrà invece comparire a settembre per la prima udienza, di poter anteporre impegni istituzionali alla presenza in aula. In pratica un
“legittimo impedimento” in chiave internazionale.
Ma il caso in discussione all’Aja non è solo il primo processo per crimini contro l’umanità di un tribunale sovranazionale ad un
capo di Stato in carica ma una complessa partita a scacchi politica-diplomatica dal cui esito dipende
il futuro della Corte stessa.
Lo scorso aprile, si sono tenute le elezioni presidenziali nello stato africano e Kenyatta è stato eletto Presidente ma la Corte, forse in risposta alle accuse di venire spesso manipolata dagli stati finanziatori ha scelto la linea dura: la data di avvio del processo, prevista inizialmente per il 9 luglio, non si cambia. E di archiviare il caso non se ne parla, come invece ha chiesto a gran voce la
diplomazia keniota, in una mozione inviata addirittura al Consiglio di Sicurezza dell’ ONU (è bene precisare che le Nazioni Unite non hanno alcuna giurisdizione sulla Corte che resta un organismo internazionale al quale hanno dato vita gli stati firmatari del Trattato di Roma). Ma quest’ultima vicenda e la durissima presa di posizione di
Hailemariam Desalegn, presidente etiope e segretario generale dell’Unione degli Stati Africani, che a fine maggio, in occasione di un summit, ha puntato il dito contro la corte definendola “razzista”, hanno certamente lasciato il segno.
Il governo di Nairobi è favorevole al processo, a patto si tenga in Kenya o in qualunque altro paese africano ma dalla Corte si chiedono “chi garantirà imparzialità e protezione ai testimoni?”. Il futuro del TPI non è ancora scritto ma la crisi di credibilità, accentuata da un pessimo rapporto tra i costi ingenti e gli scarsi risultati ottenuti, ha indubbiamente spento gli entusiasmi dei tempi della fondazione. Le corti per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda avevano goduto di un prestigio (ed di un’esposizione mediatica) che il TPI, senza il marchio di qualità dell’Onu non può invece vantare. Forse il peccato originale della Corte sta nel non aver (ancora) trovato una formula per far funzionare la giustizia nonostante la politica.