Creato nel 2010 da Bhaskar Sunkara, 24 anni, il trimestrale ha svecchiato la stampa liberal-progressista negli Stati Uniti. "La sinistra in Italia? E' una tragedia, a differenza di Grecia e Portogallo". E per spiegare l'obiettivo della rivista cita Gramsci
“Il problema non sono gli elettori, ma la decadenza dei giornali della vecchia sinistra”. Nonché la sinistra stessa che “in Italia, ad esempio, è una tragedia”. Bhaskar Sunkara, 24 anni, è editore e direttore di Jacobin, il trimestrale che, come ha scritto il New York Times, “ha riportato Marx nel mainstream”. Figlio dell’era post ideologica, quella nata dopo il crollo del Muro, dove il socialismo non è più tabù e il capitalismo è ormai in antitesi con le prospettive di futuro e stabilità. Per essere sexy e di sinistra bisogna essere “diretti e provocatori. E ricordarsi che si scrive per un pubblico, non per una cricca di adepti”. Quindi: dimenticate la grafica polverosa e stantia. Per rilanciare dibattiti su socialismo e mercato serve un design fluido e leggero come quello, ad esempio, di New Yorker, McSweeneys o Slate. Se poi dietro alle pagine c’è anche un direttore irriverente, dotato di senso dell’umorismo e penna brillante, le possibilità di farsi strada aumentano. Nata a settembre 2010, Jacobin è arrivata al nono numero con più di tremila abbonati e oltre 250mila utenti unici al mese sul sito. Il cuore della rivista sono sei editor, ma intorno a loro ruota “una folta schiera di collaboratori”. La mascotte è un giacobino nero bicolor, ispirato a Josè Dolores, giovane rivoluzionario delle Antille, anti-britannico e di colore, nella rappresentazione di Queimada! di Gillo Pontecorvo. Per convincere i lettori a contribuire con una donazione, Sunkara pubblica un decalogo. Primo comandamento: non crediamo nella diffamazione a mezzo stampa. Secondo: nemmeno i nostri avvocati. Utimo: questo è un ottimo modo per riciclare denaro.
“Quello che guadagno col giornale preferisco reinvestirlo in Jacobin e nella retribuzione dei nostri collaboratori”, spiega il direttore. Direzione bottom-up, ovvero: “I nostri stagisti sono pagati 15 dollari l’ora, gli editor principali no”. Pensate che Sunkara sia il tipico newyorkese radical chic? Niente affatto. “La mia è una famiglia di immigrati, provengo in buona parte dalla working class. Entrambi i genitori di mia madre erano analfabeti e lei solo di recente si è diplomata al college”. La rivista ha esordito con un servizio dal titolo “perché amiamo gli zapatisti“, un altro sul sionismo liberale e un’intervista all’autrice di Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi. Poi è arrivata la copertina dell’estate 2012 in cui Abraham Lincoln siede di fianco a Karl Marx (qui). Il presidente è alla guida di una Dodge Charger, la stessa che nel telefilm The Dukes of Hazzard era soprannominata Generale Lee, comandante dell’esercito sudista, con tanto di bandiera confederata sul tetto. Ma su Jacobin è stata sostituita dall’unificante “stars and stripes” e la Dodge è targata “General Grant”, l’ufficiale unionista che sconfisse Lee. E ancora, analisi filosofiche su lavoro e identità, la forza radical della pirateria e posizioni controcorrente sull’ambiente (“il controllo e la manipolazione della natura […] possono essere fonte di emancipazione”).
Posizioni controcorrente “che hanno le loro radici nel pensiero autonomista” e articoli che scuotono gli stereotipi della vecchia stampa progressista, perché “vogliamo riaffermare che la questione della libertà è il principale problema della sinistra”. “Il successo di Jacobin – continua – è dovuto alla confezione grafica del giornale (il direttore creativo è Remeike Forbes, ndr) e alla volontà di coinvolgere il mainstream. Inoltre, siamo più leggibili dei giornali liberal“. Un magazine “intellettuale nei toni ma non accademico” perché “la maggior parte dei nostri lettori è giovane”. Ma quello della sinistra è un cammino che per Sunkara, specie in Italia, è in salita. In Europa però ci sono gli esempi positivi della Grecia e del Portogallo, dove le piazze si riempiono contro l’austerity. “Negli Stati Uniti abbiamo una tradizione politica diversa, ma stiamo facendo un buon lavoro a Chicago e nel movimento post-Occupy, specie sul piano culturale. Ci sono motivi per essere pessimisti, certo. Ma – conclude citando Antonio Gramsci – dobbiamo puntare a questo: ‘Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà'”.