Un pomeriggio di fine inverno del 2011 ebbi il piacere di conversare con Luca Doninelli ed Elena Mearini in piazza Sant’Alessandro. A due mesi dalle elezioni amministrative non era facile dire se il governo della città sarebbe rimasto all’uscente Letizia Moratti o se invece sarebbe passato a Giuliano Pisapia. L’unica certezza – affermò Doninelli – era che nessuno dei candidati abitava fuori dalla cerchia della ‘90-91’.
Da allora, spesso, quando penso a Milano, una delle immagini che associo alla città è proprio quella della circolare destra (la 90) e della speculare circolare sinistra (la 91). Il fotoreportage di Giorgio Vianini racconta una delle linee più strategiche dell’Atm, di certo la più multietnica: cingalesi, rumeni, arabi, africani, filippini, milanesi con e senza ‘pedigree’. A bordo della 90-91, come sulla 56 d’altronde e un po’ su tutti gli autobus, realizzi che la città non è un monolite immobile.
Tutt’altro: è un corpo vivo che riflette ciò che siamo. Quella netta rotondità che la 90-91 traccia come fosse un compasso, ti dice che c’è una parte della città – la più nota – che sta al di qua, ma ti ricorda pure che ve n’è un’altra, più popolare – la più periferica – che sta al di là. Milano è l’una e l’altra parte. Il suo volto bello è disseminato di qua e di là. Ma non sempre lo si riconosce. Spesso, nel sentire comune, Milano diventa orgogliosa, schiva, frenetica, ansiogena, stanca, capricciosa … cocainomane. Sicuramente – mi dico – sarà così se sono in tanti a pensarlo.
Però, Milano è anche accessibile, forte, coraggiosa, pulsante di passioni segrete nascoste. Di mente aperta.
In ‘Milano non è Milano’, Aldo Nove scrive: “Milano è come la punta di un iceberg. Sotto, immensa, c’è la sua storia. Ogni tanto un’onda ne scopre un frammento, prima che le acque […]lo riportino sotto. Millenni underground. Per conoscerla, bisogna avere la pazienza di ascoltarla. Con lo stetoscopio. Come pulsa dentro. Bisogna saperla sentire. Suo malgrado. Dove rivela la sua memoria”. Forse è per questo – mi convinco – che tante delle persone che sono nate o arrivate a Milano e che qui ci hanno vissuto o ci vivono, dicono di averla amata e vissuta intensamente, ma di non amarla più. Forse la Milano di cui parlano è una Milano che è stata e che non è più, o forse faticano a riconoscerla mentre cambia il suo skyline. Ma per una Milano che si alza vertiginosamente – chissà per quali interessi …! – ce n’è sempre una più invisibile che si trova sotto la superficie delle tranquille abitudini di esistenze ‘normali’. Così, pure al fianco della ‘Milano da bere’ ve n’è un’altra, meno visibile, magari all’apparenza più vulnerabile, oggi però disposta a non mascherare la sua debolezza per riconoscerla in quella degli altri. E’ questo può creare complicità e quindi speranza in uno sviluppo più felice. E’ la parte della città che conosco meglio e che amo narrare.
Allora, esiste davvero una Milano da amare? Sì, esiste. E’ una città – quella meneghina è solo un pretesto per interrogarci sui nostri territori – da ritrovare, da intercettare, da accogliere e in cui farsi accogliere. Perché per me – e qui mi torna in mente Enzo Jannacci– il meglio di Milano è quasi sempre quello che da qualche altra parte (in alto) si è deciso che non conta. La Milano della fatica di vivere, talvolta anche dell’umiliazione di sopravvivere. Penso a ‘Ci vuole orecchio’ e all’intervista a Gino e Michele che di quel brano sono gli autori. “Perché ci vuole orecchio/ bisogna avere il pacco/ immerso, intinto dentro al secchio/ bisogna averlo tutto/ anzi parecchio” In sostanza, dice Michele: “ti devi fare capire dalla gente e far tesoro delle altre culture. Milano è il simbolo del melting pot: se ieri non ci fossero stati pugliesi, napoletani e siciliani, Milano non sarebbe riuscita a incrociare la sua cultura mitteleuropea con quella mediterranea”. E continua Gino: “bisogna essere nella realtà, capirla e non ragionare per esclusione. Oggi la cultura di Milano si è arricchita della presenza di egiziani, sudamericani, cinesi: se non accetta gli altri Milano non esiste”.
Incontrarsi, in fondo, vuol dire anche contribuire a superare la solitudine. Non in maniera consolatoria. Parlare con realtà e persone diverse da noi, rappresentanti di altri mondi. Tornando al brano:“E la bobina continua a girare/ sì ma la base va anche da sola /e noi che abbiamo tutta la voce in gola?”
La nostra voce può e deve esprimersi anche per conto di altre voci, che non ci arrivano quando siamo distratti, di fretta e non andiamo al di là della 90-91. Milano, attraverso la sua storia, ci ha insegnato che continuerà a dare corpo alle voci più diverse. Nella Milano del futuro non vi troveremo nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi. Occorre averne consapevolezza. Se riusciremo a stringerla tra le braccia, la sentiremo viva, coraggiosa, generosa e alla fine anche bella. La nostra città.