Qui lo scrivo e qui non lo nego: Sky, la squadra della maglia gialla, è meno forte della Saxo-Tinkoff di Alberto Contador, ma Christopher Froome è il più forte dei corridori di questo Tour de France. Con Froome sono rimasti sei compagni. Con Contador, otto. I gregari di Froome sono amaramente coscienti di non essere al livello che ci si attendeva da loro. Sperano nel karma ciclistico del loro ieratico capitano perché sulle salite “faccia qualche numero dei suoi” (copyright Geraint Thomas, pettorale numero 9, pistard e ciclista su strada britannico, due ori olimpici nell’inseguimento a squadre e tre titoli iridati) che ha twittato il suo “disappunto” su come sono andate le cose nella tredicesima tappa. Anche il cuoco della Sky ha twittato, “siamo come i Magnifici sette” (con tanto di fotomontaggio della locandina, dove i sette mercenari hanno i volti dei sette Sky) e in effetti Froome, con la sua pelata, ricorda Yul Brinner, il capo dei pistoleri assoldati da un villaggio messicano per proteggersi dall’avidità di una banda di tagliagole. Peccato che il soprannome del “nemico” Contador sia El Pistolero

Per nulla turbato dal minuto smarrito nel vento – almeno apparentemente – Christopher Froome ha detto che in fondo “molta gente aveva le proprie buone ragioni per tirare alla morte, non ho certo sprecato energie preziose per inseguire la Saxo, non credo che avrebbe fatto grande differenza, io penso infatti che ci saranno distacchi ben più importanti in una tappa come quella di domenica, sul Mont Ventoux”. Semmai, è il sottinteso, saranno gli altri a doversi preoccupare appena la strada comincia a salire, perché sarò in grado di riprendere il doppio di quello che ho perso…

Scaramucce dialettiche, il sale e il pepe della corsa e, soprattutto del dopocorsa. Con astuzia, Froome ha evocato il totem del Tour numero 100, il Mont Ventoux che il grande Roland Barthes nel suo celebre saggio sui “Miti di oggi” (1957) definì vero Moloch, “despota dei ciclisti”, una salita che non perdona e che esige un ingiusto tributo di sofferenze. Il Tour dispone di una “vera e propria geografia omerica”, dove gli eroi, ossia i campioni, esplorano i propri limiti. Ora, nel gruppo tutti temono lo scatto di Froome in salita, quell’intrinseca elettricità che permette alle gambe del ciclista di scatenare tutti i watt per aumentare cadenza di pedalate e strabiliare chi ti guarda.

La psicologia da sempre fa parte del gioco, nel ciclismo: anima rivalità, infiamma le sfide, misura l’acutezza dell’intelligenza e la volontà del carattere. Specie alla vigilia delle grandi salite, vissute come maligne realtà, codificate dai numeri che identificano le percentuali delle pendenze. Dietro quei numeri si celano pure i sentimenti che i corridori provano nell’affrontarle. Più aspra è la salita, più sembrano metaforicamente mortali. Sul Ventoux, purtroppo, la morte c’è stata, e la memoria del povero Tom Simpson incombe su tutto il percorso. Giusto 46 anni fa, il 13 luglio del 1967 Simpson rimase ucciso dalla fatica, dal caldo, da un micidiale cocktail di anfetamine: il suo cuore cessò di battere alle 17 e 40. Era stato il primo inglese a diventare campione del mondo nel 1965 e ad indossare la maglia gialla, nel Tour del 1962. Aveva vinto la Milano-Sanremo del 1964 e per questa vittoria la regina Elisabetta lo nominò baronetto.

Per tutti noi appassionati di ciclismo, il Ventoux è più che una leggenda: è una prova d’ardimento, una sfida alla cattiveria della Natura, che lassù diventa feroce, nell’estate rovente della Provenza. Ai corridori, pare che la strada si trasformi in trincea. E che si pedali in un campo di battaglia, tra cielo e terra, dove il mistral si scontra con la tramontana e dove, ad un certo punto, la montagna resta nuda, appena coperta da sassi e pietre, una fornace che assedia l’asfalto, un paesaggio quasi apocalittico. Un calvario. Assurdo. Come lo sport, quando diventa estremo.

Per Froome, invece, il Ventoux è un appuntamento ineluttabile, un passaggio obbligato dove dimostrare, come sostiene lui, che si può domarlo correndo “pulito”, e, di conseguenza, si può vincere il Tour senza imbrogliare. Doparsi è un crimine, ha ribadito più volte la maglia gialla. E’ immorale. Ma non è colpa sua, se i pregiudizi restano, se la cronaca degli ultimi quindici anni di Tour ha svelato corse parallele ed illecite. A Froome pesa sentire paragoni indiretti (poi mica tanto) con le prestazioni di Lance Armstrong. E la biondina Michelle Cound, la sua fidanzata nata nel Galles ma allevata in Sud Africa, prontamente ribattezzata Fromette dal collega Alexandre Roos dell’Equipe, ha twittato contro noi giornalisti, rei di accostare le imprese del suo Chris con quelle non più brillanti di Lance.

Consentitemi una divagazione su Fromette. Con una certa genialità, la fanciulla ha messo su Twitter la frequenza cardiaca del suo cuoricino, mentre se ne stava sdraiata in poltrona a seguire la crono del Mont Saint Michel: 162 pulsazioni, addirittura, più di lui che correva come una moto. Chiamatele, se volete, emozioni.

Lettura consigliata – “Noi non avevamo paura di nulla…”, così comincia l’autobiografia di Laurent Fignon, che vinse due volte il Tour (1983 e 1984)e ne perse uno per appena otto secondi dopo 3285 chilometri di corsa, battuto dall’americano Greg Lemond. Entrò nella leggenda del ciclismo francese a soli ventidue anni e divenne l’eroe di tutta una generazione. Incarnava la gioventù, la foga, l’impertinenza e rivalizzò con corridori come Bernard Hinault. Tra il 1982 e il 1993 Fignon attraversò l’età d’oro di uno sport epico e conobbe tutto ciò che un campione fuori norma può sperare e paventare: il superamento di se stesso, la gloria, una ferita grave, dei periodi di dubbio, la tentazione di doparsi e la conclusione di una carriera esigente. Nel 1989 lo si riteneva finito: rinasce dalle ceneri, vince il Giro d’Italia e perde il Tour per quei maledetti piccolissimi secondi. Il libro s’intitola “Nous étions jeunes et insouciants” (Grasset, 2009), “Eravamo giovani e spensierati”, una testimonianza senza concessioni e infigimenti. Fignon in corsa e soprattutto fuori corsa aveva l’aria del professorino, e lo era: buone frequentazioni culturali, buona scrittura, un intellettuale prestato al ciclismo che dopo le corse si mise a fare il commentatore tv. Ho avuto modo di conoscerlo al suo ultimo Giro e di averlo rivisto qualche volta a Parigi. Mi comunicò la consapevolezza d’avere vissuto il ciclismo al suo apogeo, di avere scollinato un ciclismo ormai arcaico e di essere piombato in quello ambiguo di oggi: “La mia epoca era quella in cui i ciclisti non avevano paura di nulla”, mi disse, “poi, al tour 1991 vidi che corridori mediocri volavano in salita, mi staccavano e non avrebbero potuto farlo…erano gli effetti dell’Epo“. Il suo libro racconta vita e cognizione del dolore, storie di successi e storie di anfetamine e persino cocaina, come quella che gli offrì un corridore colombiano alla Vuelta del 1987. Ci ha lasciato il 31 agosto del 2010, aveva cinquant’anni. Lo ha battuto un tumore al pancreas.

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