Nel corso del 2010, l’ultimo anno per il quale sono disponibili informazioni complete, le grandi imprese statunitensi hanno pagato tasse per una quota complessiva pari al 12,6% dei loro profitti, poco più di un terzo di quanto previsto dai parametri della legge federale. Lo rende noto l’ultimo rapporto del Government Accountability Office (Gao), la corte dei conti Usa. A determinare il risparmio un insieme di fattori che comprende esenzioni, incentivi e crediti accumulati che consentono alle aziende di usufruire in modo del tutto legale di uno sconto significativo sulle imposte dovute. A questo si aggiunge poi la bassa tassazione sulle attività condotte all’estero e il livello altrettanto ridotto delle imposte locali dei singoli Stati. Includendo questi elementi, sottolinea il Gao, l’aliquota effettiva sostenuta dalle imprese sale appena al 16,9%, ovvero circa metà della quota teorica della income tax americana, che per le imprese è fissata al 35%.

“I sostenitori della proposta di abbassamento delle tasse sui profitti evidenziano spesso come l’aliquota nominale statunitense non diversamente da quella effettiva (…) sia relativamente alta rispetto a quelle degli altri Paesi”, si legge nel rapporto. Tuttavia, già nel 2008, uno studio del Gao aveva evidenziato “che quasi il 55% delle imprese Usa non aveva riportato alcun imponibile fiscale”, ovvero non aveva versato un centesimo di tasse, “almeno una volta tra il 1998 e il 2005”. L’indagine dell’ente americano, ha ricordato il senatore democratico Carl Levin, si integrerebbe bene con altri studi che dimostrano “come le grandi corporation siano spesso in grado di minimizzare, se non di evitare interamente, il pagamento delle tasse sui profitti”. Un’indagine condotta nel 2012 da Citizen for Tax Justice, un’organizzazione di base a Washington, aveva rivelato che 30 delle principali multinazionali americane non avevano pagato neanche un dollaro di tasse negli ultimi tre anni su profitti complessivi di oltre 160 miliardi.

L’indagine del Gao era stata richiesta un anno fa dallo stesso Levin e dal suo collega repubblicano Tom Coburn, rispettivamente presidente e membro del Permanent Subcommittee on Investigations del Senato americano. L’esito del lavoro di ricerca, condotto sulle imprese Usa con almeno 10 milioni di dollari di asset, irrompe sulla scena in un momento particolare del dibattito politico. Nei giorni scorsi la stampa britannica ha rivelato come il colosso Apple sia riuscito nell’impresa di non versare alcuna tassa nelle casse del Regno Unito pur a fronte di profitti netti per circa 68 milioni di sterline (nel dettaglio: 16 milioni per Apple Retail UK Ltd, 43,8 per Apple UK Ltd e 8 per Apple Europe). L’anno scorso lo stesso Subcommitee del Senato Usa aveva preso di mira proprio l’azienda fondata da Steve Jobs e la sua rivale storica Microsoft denunciando i vuoti legislativi e gli espedienti contabili offshore che avevano consentito ai due giganti dell’informatica di eludere legalmente il fisco statunitense per oltre 94 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2012. Oggi, ovviamente, Levin e Coburn rincarano la dose. “Le più grandi corporations d’America pagano aliquote fiscali inferiori rispetto a quelle dei nostri insegnanti e dei vigili del fuoco”, ha dichiarato il senatore democratico.

“Ogni risparmio fiscale da parte di una multinazionale si traduce in un aumento della tassazione per i cittadini della classe media e per quelli di basso reddito”, ribadisce Coburn. Accuse pesanti giustificate però dai numeri. Le imposte sui profitti delle corporation, ha ricordato l’Office of Management and Budget (Omb), sono state pari nel 2012 a 242 miliardi di dollari contro i 1.100 miliardi delle tasse sui redditi dei singoli cittadini. Uno “spread”, per così dire, in linea con una ormai nota tendenza storica. Nella prima metà degli anni ’50, ha ricordato il Gao, le tasse pagate dalle grandi imprese rappresentavano circa il 30% della raccolta complessiva delle casse federali. Oggi costituiscono meno del 10% del totale. Il peso delle entrate fiscali sui profitti delle imprese registrato attorno alla metà del secolo scorso equivaleva al 6% del Pil statunitense. Dall’inizio degli anni ’80 ad oggi, il rapporto ha oscillato tra un massimo del 2,7 e un minimo di poco superiore a quota 1%. Nel prossimo decennio, ipotizza l’Ufficio del bilancio del Congresso, il range osservato negli ultimi trent’anni dovrebbe mantenersi costante.

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